Obbligo vaccinale e profili giuridici di legittimita’ costituzionale

L’INIZIALE SCELTA DEL LEGISLATORE E LA PROCEDURA DI COMMERCIALIZZAZIONE EUROPEA DEI VACCINI

di Michele Dicuonzo **

L’attuale crisi sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19 ha costretto gli Stati ad adottare stringenti misure di contenimento per la prevenzione della diffusione del virus.

Sin dal primo momento in cui i governi nazionali hanno avuto la possibilità di intraprendere campagne di vaccinazione di massa della popolazione, tutti i cittadini hanno cominciato ad interrogarsi circa la legittimità costituzionale dell’obbligo vaccinale. La soluzione della questione, ormai da mesi al centro del dibattito pubblico, ha portato ad una spaccatura del tessuto sociale, in virtù delle contrapposte posizioni adottate al riguardo. Il presente elaborato si propone l’obiettivo di dimostrare che la legittimità di un obbligo vaccinale sia in realtà un concetto radicato all’interno del nostro assetto costituzionale e assiduamente affermato dalla giurisprudenza dalla Corte Costituzionale.

Nello stadio iniziale della pandemia, il legislatore italiano ha scelto la linea della sensibilizzazione, confidando sull’effetto persuasivo che una forte campagna propagandistica pro vaccino potesse suscitare nei riguardi della compagine sociale. La scelta di un tale orientamento e l’esclusione dell’adozione di un’estensione generalizzata di un obbligo vaccinale sono da ricercarsi in diversi ordini di motivi.

Innanzi tutto, il primo motivo si ravvisa nell’iniziale scarsa disponibilità materiale delle dosi vaccinali prodotte dalle case farmaceutiche.

Una seconda ragione può ricercarsi nella volontà dei rappresentanti delle istituzioni di preferire l’attuazione dell’obbligo solo in un’ottica di extrema ratio, specialmente in considerazione dell’iniziale generale scettiscismo sull’efficacia dei vaccini nella lotta al virus.

Infine, una terza causa è da individuarsi nelle stringenti regole di commercializzazione dei vaccini dettate in ambito europeo: la normativa vigente prevede che l’adozione di un vaccino deve passare al vaglio dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema), la quale, a seguito di una valutazione circa la sua efficacia, sicurezza e qualità, emette una raccomandazione indirizzata alla Commissione Europea, la quale, a sua volta, si esprime sulla possibilità di autorizzare la commercializzazione sul mercato dell’Ue, previo parere favorevole degli Stati membri. Accanto a questo iter ordinario è prevista una procedura ad hoc, studiata per far fronte ad una situazione di carattere emergenziale come quella attuale: si fa riferimento “all’immissione in commercio fortemente condizionata” (Cma), ovvero una modalità che consente un’autorizzazione maggiormente semplificata e rapida, ma che garantisce allo stesso tempo una forte attività di monitoraggio tramite l’applicazione di elevati standard qualitativi di controllo e sicurezza.

Pertanto, gli Stati membri hanno concordemente convenuto di applicare la procedura di “immissione in commercio fortemente condizionata” per i vaccini anti-Covid, a discapito dell’introduzione di un obbligo vaccinale.

Le considerazioni svolte fin ora potrebbero legittimamente indurre a ritenere che la sola adozione della procedura di immissione fortemente condizionata giustifichi il diniego delle autorità all’introduzione dell’obbligo. Tuttavia, occorre rilevare come quest’ultima non sia una procedura creata appositamente per il contrasto alla pandemia, ma, al contrario, una prassi ormai in forte uso da anni, per cui risulta inesatta e non pertinente l’obiezione mossa da coloro che inneggiano alla natura sperimentale del vaccino.

A tal proposito, la Corte Costituzionale nella sentenza n.258/1994 è stata chiamata ad esaminare la questione di costituzionalità della disciplina attinente la vaccinazione obbligatoria contro l’epatite virale di tipo B, impugnata per la omessa previsione di accertamenti preventivi “idonei quanto meno a ridurre il rischio […] di lesioni della integrità psico-fisica per complicanze da vaccino” e di eventuali controindicazioni che il vaccino fosse in grado di recare.

In questa occasione, la Consulta, nel dichiarare inammissibile l’istanza, pur ribadendo la necessità di un’individuazione legislativa degli accertamenti rivolti all’enucleazione delle potenziali complicazione scaturenti dal vaccino, ha sancito che “la prescrizione indiscriminata e generalizzata di tutti gli accertamenti preventivi possibili, per tutte le complicanze ipotizzabili e nei confronti di tutte le persone da assoggettare a tutte le vaccinazioni oggi obbligatorie”andrebbe notevolmente a complicare e ad aggravare la concreta realizzabilità dei corrispondenti trattamenti sanitari.

I profili di costituzionalità dell’obbligo vaccinale

Come preannunciato nell’introduzione, la legittimità dell’esercizio da parte dello Stato del potere di adozione di un obbligo vaccinale discende da un delicato equilibrio di alcuni principi costituzionali fondamentali, per cui già in sede di Assemblea Costituente emersero le prime rilevanti criticità nel trovare un bilanciamento tra l’obbligatorietà dei trattamenti sanitari sancita dall’art. 32.2 Cost., il dovere di solidarietà sociale ex art. 2 Cost. e la libertà del singolo.

In particolare, una delle questioni più rilevanti attiene la natura della riserva di legge disposta dall’art. 32 comma 2 Cost.

Sulla questione, autorevole dottrina ha osservato che l’analisi della norma in esame impone la necessità di distinguere tra due ipotesi entro cui trova attuazione la riserva di legge: infatti, occorre discernere il trattamento coattivo, il quale è soggetto a riserva di legge assoluta e a riserva di giurisdizione – dunque può solo essere disposto dall’autorità giudiziaria nei casi e modi stabiliti dalla legge -, dal trattamento sanitario obbligatorio, il quale è soggetto ad una riserva di legge relativa – dunque può essere imposta anche dalle autorità amministrative e sanitarie. Secondo l’ormai consolidato orientamento costituzionale, le vaccinazioni imposte per legge devono annoverarsi tra i trattamenti sanitari obbligatori, quindi meritevoli di un apposito intervento legislativo. Inoltre, per ragioni di completezza si precisa che secondo un’interpretazione diffusa e recentemente ribadita proprio con riferimento al decreto n. 73 del 2017 «la riserva di cui all’art. 32 Cost. non è, specificamente, di “legge formale” e può, dunque, essere costituzionalmente soddisfatta anche mediante l’adozione di un decreto-legge, fatti salvi i requisiti di «straordinaria necessità ed urgenza» dettati dall’art. 77 Cost., oltreché i limiti imposti dall’art. 32 Cost. ai trattamenti sanitari obbligatori (cit. G. PIZZETTI, Vaccini obbligatori: Le questioni aperte, in Rivista di BioDiritto n.2, 2017).

Tale indirizzo deriva dalla constatazione che il diritto alla salute tutelato dall’art. 32 Cost., primo comma, è qualificato dal possesso di una natura polivalente, in quanto la salute è da intendersi non soltanto come un “diritto dell’individuo”, ma anche come un “interesse della collettività”.

Al riguardo, la stessa Consulta, nelle sentenze aventi ad oggetto la vaccinazione antipoliomielitica e la vaccinazione contro l’epatite B, ha enucleato i requisiti che garantiscono la compatibilità dell’obbligo vaccinale con la norma costituzionale in esame, valorizzando, in particolar modo, questo carattere bifronte della salute.

In primo luogo, è necessario che “il trattamento sia diretto non solo a migliorare o preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri”, poiché è proprio questa ulteriore finalità di tutela dell’interesse collettivo a legittimare la compressione della libertà di autodeterminazione del singolo nel decidere se avvalersi o meno dell’inoculazione del vaccino. In secondo luogo, occorre che vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili”. Infine, l’ultimo parametro è integrato “se – nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio – sia prevista la corresponsione di un’equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.”.

Peraltro, il giudice delle leggi ha di recente avvalorato l’importanza “collettiva” e la conformità dell’obbligo vaccinale al diritto alla salute in presenza dei presupposti sopra descritti. La questione atteneva il ricorso presentato dalla Regione Veneto, la quale lamentava l’incostituzionalità degli obblighi vaccinali disposti con il decreto legge n.73/2017. In particolare, il decreto Lorenzin ha introdotto l’obbligatorietà della somministrazione di 12 vaccini rivolto ai minori fino ai 16 anni di età come requisito per l’iscrizione ai corsi scolastici. A seguito dell’introduzione di queste misure, giustificate dal legislatore sulla base della particolare urgenza di quel preciso momento storico, in quanto finalizzate alla tutela della popolazione nazionale mediante il raggiungimento della cd. immunità di gregge, la Regione ricorrente ha sostenuto che sul proprio territorio “non esiste alcuna emergenza di sanità pubblica in relazione alle patologie a cui si rivolge il decreto, tale da giustificare il travolgimento del programma regionale, basato sul consenso informato, e la sua sostituzione con un esteso obbligo vaccinale”.

Nello specifico, la questione che la Corte era chiamata a risolvere atteneva, da un lato, alle modalità di ripartizione delle competenze tra lo Stato e le Regioni in materia di salute pubblica e, dall’altro, alla legittimità del riconoscimento alle Regioni del potere di intervenire attivamente per limitare o sospendere gli obblighi prescritti dallo Stato. Nel merito, la Consulta nella sentenza n.5/2018 ha chiaramente riconosciuto una piena potestà legislativa statale in materia di determinazione dell’obbligo, escludendo di conseguenza la potestà regionale di modificare l’obbligo introdotto a livello nazionale. Infatti, a ben vedere, un’eventuale presa di posizione della Corte in termini opposti rispetto a quelli appena rilevati avrebbe completamente svuotato del suo nucleo applicativo la riserva di legge ex art. 32 Cost., creando così un vulnus insanabile ai futuri interventi legislativi rivolti all’introduzione di un obbligo vaccinale, poiché quest’ultimo potrebbe essere in concreto dismesso da posizioni locali totalmente divergenti sulla questione.

Pertanto, secondo la Consulta, solo lo Stato ha il potere discrezionale di scelta “delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo”, mentre alle Regioni deve attribuirsi una competenza sussidiaria da realizzare nel rispetto delle previsioni contenute nella normativa statale.

Il d.l. 44/2021 e il d.l. 1/2022: l’introduzione dell’obbligo per determinate categorie 

Attualmente, il legislatore italiano ha imposto l’obbligo vaccinale anti-Covid19 solo per determinate categorie di persone: inizialmente, l’art. 4 del d.l. 44/2021 ha unicamente disposto l’introduzione del provvedimento nei riguardi degli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario; successivamente, il d.l. 1/2022 ha introdotto l’art. 4 quater con il quale il legislatore ha esteso l’obbligo vaccinale a tutti coloro che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età. La legittimità costituzionale di tali disposizioni risiede nell’art. 32 Cost. che costituisce il fondamento del dovere del legislatore di tutelare l’interesse della collettività di fronte al rischio che scelte individuali del singolo possano nuocere all’integrità della salute dell’intera popolazione. Tuttavia, l’intervento così descritto presenta due precisi limiti di carattere generale che sono da rinvenirsi nei principi di proporzionalità e di ragionevolezza delle conseguenze. Ne consegue che l’eventuale licenziamento del lavoratore per non avere ottemperato all’adempimento dell’obbligo sarebbe una misura sproporzionata in eccesso rispetto alla consistenza della violazione dei doveri su di lui incombenti; all’opposto, non sarebbe irragionevole la sanzione pur grave della sospensione dell’erogazione delle retribuzioni, nel caso del personale sanitario. In ultimo, ulteriori ragioni di legittimazione dei provvedimenti in esame per il personale sanitario possono ravvisarsi nella particolare delicatezza delle mansioni svolte e del costante e ravvicinato contatto che questi hanno con pazienti in condizione di fragilità.

Per tutti gli individui non rientranti nelle categorie suddette rimane fermo, in assenza di un’apposita legge, il diritto di autodeterminarsi circa la scelta di vaccinarsi, in quanto per essi permane solo un vincolo civico e morale.

Gli indennizzi in caso di danno dal vaccino 

Un ulteriore presupposto di legittimità per l’introduzione di un obbligo vaccinale si rinviene nella necessaria predisposizione di una tutela indennitaria a favore di coloro che subiscono intollerabili danni alla salute, causati dall’avvenuta somministrazione del farmaco. Questa guarentigia è stata ribadita dalla Consulta (sentenza n. 5 del 18 gennaio 2018, n. 258 del 23 giugno 1994 e n. 307 del 22 giugno 1990) attraverso l’individuazione dei parametri, elencati in precedenza, finalizzati ad attestare la compatibilità dell’obbligo con l’art. 32 Cost. In questa sede, rileva specificamente l’ultimo presupposto, il quale sancisce la necessità che la legge, nel disciplinare l’obbligo vaccinale, debba prevedere la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, oltre alla tutela risarcitoria, la quale è svincolata dalla previsione di un indennizzo. Le due differenti ipotesi richiamate si differenziano sulla base di alcuni fattori: nello specifico, il risarcimento si configura nel momento in cui è fornita la prova dell’esistenza del nesso causale tra il fatto illecito dell’autore (doloso o colposo) ed il danno cagionato, mentre il diritto soggettivo a ricevere l’indennizzo nasce a seguito della prova che le lesioni permanenti all’integrità psico-fisica siano una conseguenza diretta della vaccinazione.

Quanto sostenuto trova pieno conforto nell’art. 1 della L. 25/02/1992, n. 210, in base al quale “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge”. Ora, se ci si affidasse unicamente ad una mera interpretazione letterale del precetto, la conseguenza sarebbe che gli eventuali indennizzi potrebbero essere erogati solo nelle ipotesi in cui il vaccino avesse una natura obbligatoria, con la conseguenza che rimarrebbero privi di copertura indennitaria sia i casi in cui le menomazioni fossero solamente temporanee, sia i casi in cui i vaccini fossero meramente consigliati e non imposti dalle autorità. In realtà, la Corte è intervenuta sul punto e ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, stabilendo l’ingiustificata e irragionevole differenziazione di trattamento a seconda che il vaccino sia obbligatorio fortemente consigliato.

Venendo alla problematica attuale, è opportuno chiarire la natura del vaccino anti Covid19. È innegabile che la l. 210/1992 trovi piena attuazione per quelle categorie su cui grava l’obbligo vaccinale; al contrario, la questione è di non immediata risolvibilità per le altre ipotesi a cui non si rivolge l’onere. Infatti, si è reso nuovamente necessario un intervento della Consulta (sentenza 23 giugno 2020, n. 118), la quale ha proclamato l’assoluta equivalenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione, in ragione del fatto che il fondamento della scelta di adesione ad una delle due modalità risiede in valutazioni squisitamente politiche e discrezionali del legislatore. In special modo, lo strumento della raccomandazione garantisce una più ampia libertà di autodeterminazione al singolo, lasciando a quest’ultimo la decisione di vaccinarsi per salvaguardare l’interesse collettivo della comunità. Per siffatte ragioni, è compito dello Stato farsi carico delle eventuali conseguenze negative sull’integrità psico-fisica della persona, garantendo il diritto dei soggetti passivi ad avere accesso alle procedure indennitarie, in modo che non siano unicamente questi ultimi a sopportare il costo di un beneficio anche collettivo.

In definitiva, è innegabile che le numerose campagne di sensibilizzazione alla vaccinazione abbiano ingenerato nella collettività un legittimo affidamento sulla natura “fortemente raccomandata” posseduta dal vaccino antiCovid19. Pertanto, non riconoscere un indennizzo nei casi di menomazioni comporterebbe una lesione degli artt. 2, 3 e 32 Cost., sebbene la Corte abbia precisato che il giudice a quo non può automaticamente estendere l’applicazione della l. 210/1992 ai danni derivanti da un vaccino fortemente raccomandato, occorrendo al riguardo una pronuncia di incostituzionalità della legge oppure un intervento legislativo ad hoc teso ad estendere il diritto all’indennizzo anche a favore di chi si sottoponga al vaccino antiCovid19.

 

BIBLIOGRAFIA

  • S. Occhipinti “Danni da vaccino anti Covid-19: chi risarcisce e a quali condizioni”, Altalex.
  • C. Giovagnoli “Obbligo vaccinale: profili di costituzionalità e risarcimento del danno”, Altalex.
  • A. Patanè “La costituzionalità dell’obbligo vaccinale all’interno del difficile equilibrio tra tutele e vincoli nello svolgimento dell’attività lavorativa”, Lavoro Diritto Europa.
  • R.Romboli “Aspetti costituzionali della vaccinazione contro il Covid-19 come diritto, come obbligo e come onere (certificazione verde Covid-19)”, Questione Giustizia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il diritto di essere figli e il diritto di essere genitori: due facce della stessa medaglia.

ANALISI DELLA CARTA DEI DIRITTI DEI FIGLI DEI GENITORI DETENUTI

di Mariangela De Vecchis **

Dopo il Trattato di Lisbona, i diritti dei bambini sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea pongono la base per un’evoluzione normativa, il cui fulcro è la tutela del minore. Il risultato di questo fenomeno è una produzione legislativa volta a introdurre negli ordinamenti europei modifiche sostanziali per proteggere la categoria minorile in toto1 e, pertanto, il tema dei figli dei detenuti è uno dei più discussi. Seppure si potrebbero indagare numerosi aspetti di tale macro-tema2, in questa sede si pone l’accento sul recente rinnovo della Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti, avvenuta in Italia il 16 dicembre 2021 ed in particolare sul ruolo della maternità. Il citato Protocollo rappresenta «il modello per la prima Raccomandazione dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa nell’aprile del 2018, anticipando un percorso che gli altri paesi europei, e non solo, stanno ora affrontando»3.

Invero, l’architettura austera e decadente, tipica degli istituti penitenziari italiani, rende il carcere un luogo ostile e minaccioso per i bambini. Senza dimenticare l’assenza di spazi accoglienti per i bambini che permettano loro di giocare. A ciò si aggiungano le prassi del carcere potenzialmente traumatiche: la perquisizione e la costante presenza di agenti in divisa.

Tuttavia, si corre il rischio di eccedere nella vittimizzazione dei minori, «invece di dargli la possibilità di evolversi offrendogli una posizione e una voce nel processo criminale. Mantenere le relazioni personali e il contatto figlio-genitore è importante»4. Se è vero che i bambini «innocenti per definizione», per citare il Ministro Cartabia, non devono pagare per le colpe dei loro genitori, è altrettanto vero che il legame genitore-figlio prescinde dai reati eventualmente commessi5. La corretta crescita del minore, in un’ottica di prevenzione dei disagi psicosociali, pone le radici nel rapporto con i genitori. E non può essere altrimenti.

In maniera equivalente, il diritto di essere genitore ricopre un ruolo essenziale nella vita della madre reclusa. Le madri allontanate forzatamente dai propri figli sono devastate. L’affettività, inoltre, è un tassello fondamentale per quella rieducazione a cui dovrebbe tendere la pena, laddove recuperare la libertà – in maniera consapevole- trova la sua ragion d’essere proprio nella crescita della prole.

Emerge, in tutta la sua complessità, il problema del rapporto tra madre e figlio quando interviene una reclusione. Difatti, nella Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti acquisiscono valore di situazione giuridicamente rilevante sia la posizione del minore, sia la posizione della madre detenuta. Le soluzioni prospettate da questo Protocollo coinvolgono a tutto tondo il rapporto madre-figlio, al fine di preservarne il legame. L’art. 2 mira ad orientare la scelta dei luoghi di colloquio e dell’istituto di reclusione, garantendo il contatto diretto, gli spazi adeguati ai bambini e la frequenza continuativa ai colloqui. Inoltre, la medesima disposizione pone l’attenzione sull’importanza non solo di attenzionare i bisogni e i diritti dei minori, ma anche di coinvolgerli (proporzionalmente all’età e al grado di maturità) sugli aspetti procedurali e sulle regole della vita detentiva. Ed ancora, se da un lato si suggerisce una formazione adeguata della polizia penitenziaria e la presenza di gruppi di sostegno appositi formati da esperti del settore minorile, dall’altro si evidenzia il bisogno di «tutelare il diritto/dovere di esercitare il ruolo genitoriale».

Tuttavia, il vero scopo che il Protocollo si prefigge non è ancora stato raggiunto: mai più bambini in carcere. Volgendo lo sguardo alla realtà italiana, tra sezioni nido delle case circondariali e Istituti a custodia attenuata per detenute madri, prima della pandemia erano presenti ancora 59 bambini. Con l’emergenza sanitaria, tale numero è stato ridotto del 44%, dimostrando che è possibile migliorare prendendo in carico singolarmente ogni situazione6. La scelta più adeguata è certamente la casa-famiglia protetta, un luogo in cui i bambini possono vivere (quasi) normalmente, invitando gli amici a giocare ad esempio; intanto le madri scontano la pena senza che questo incida gravemente sulla serenità dei minori. Ciononostante, le case-famiglia protette sono solamente due, a Milano e a Roma. Milano è un caso emblematico: vi è sia una casa-famiglia protetta sia una ICAM, eppure i bambini continuano ad andare al nido penitenziario che invece dovrebbe essere l’extrema ratio7

1 V. ONU, Convention on the Rights of child, 1989. Per un quadro completo della normativa europea v. Giornale europeo della genitorialità reclusa e Regole Penitenziarie Europee.

2 Ad esempio, ci si potrebbe soffermare su: affettività in carcere, sterilizzazione dei rapporti interpersonali, ruolo della paternità, necessità di semplificazioni procedurali.

4 V. Giornale europeo della genitorialità reclusa, 2015, pag. 4 e ss.

5 Gli effetti del carcere sui minori sono estremamente negativi. V. Giornale europeo della genitorialità reclusa, 2015, pag. 20 e ss.; XIII Rapporto Antigone, Torna il carcere, Il sacrificio della maternità.

6 Questo nonostante leggi e proposte di riforma come: L. 165/1998, L. 40/2001, L. 62/2011. Volendo dare una visione d’insieme del problema, volutamente non ci si sofferma sulle criticità relative al testo delle norme e ai limiti di pena imposti per accedere alle misure alternative alla detenzione.

 

 

 

 

Il disegno di legge contro l’omotransfobia, che prende il nome dal relatore Alessandro Zan, deputato del Pd, è stato bloccato in Senato il 27 ottobre 2021. Ad esprimersi a favore della “tagliola”, chiesta da Fratelli D’Italia e Lega, è stato un Senato particolarmente diviso. 154 senatori hanno votato a favore, 131 a sfavore ed infine, 2 si sono dichiarati astenuti, bloccando definitivamente l’esame degli articoli e gli emendamenti al testo.

Dal punto di vista tecnico-giuridico, ritengo opportuno approfondire una delle tappe che ha interessato il lungo e travagliato percorso del disegno di legge in questione: le pregiudiziali di costituzionalità presentate da Fratelli D’Italia e Lega. Posto che con 136 voti contrari, 124 a favore e 4 astenuti, l’Aula del Senato ha respinto le suddette pregiudiziali, bisogna dire che il leitmotiv di una consistente fetta dei contrari al Ddl Zan è rappresentato proprio dalla incostituzionalità del disegno di legge.

Questa bislacca tesi, nonostante sia stata ripetutamente smentita tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza, non ha perso la sua capacità attrattiva presso coloro che non ritengono necessaria, in una società civile, una legge contro le discriminazioni basate sul sesso e sull’identità di genere. A proposito di ciò che riteniamo “necessario” in una società democratica, ci vengono in aiuto dei dati raccolti da Massimo Battaglio nell’ambito di un progetto denominato “Cronache di ordinaria omofobia”. Le informazioni in questione, raccolte a partire dal 2012 ad oggi, raccontano un fil rouge preoccupante, che permea la nostra Italia da Nord a Sud. Infatti, a partire dall’ottobre 2012 sono stati censiti 876 episodi di violenza (verbale e non), per un totale di 1166 vittime. A mio avviso, di fronte a 1166 vittime (soltanto quelle registrate) non si può parlare di mancanza di necessità.

A sostegno di questa tesi, Rainbow Europe, un’associazione che si occupa di raccogliere dati sullo stato dei diritti della comunità Lgbtqi+ nei Paesi Europei, statuisce che siamo al 35°posto su 49 paesi analizzati per la tutela dei diritti di questa comunità. I Parametri utilizzati dall’associazione per monitorare l’avanzamento nella tutela sono circa 70, tra cui l’equiparazione dei matrimoni omosessuali a quelli tradizionali e l’interesse dello Stato alla predisposizione di percorsi per la transizione di genere. Il fattore che gioca un ruolo decisivo nel severo giudizio di Rainbow Europe è che l’Italia, insieme a Bulgaria e Repubblica Ceca, a causa della dipartita del Ddl Zan, rimane uno dei pochi paesi europei sprovvisti di una legislazione contro l’omotransfobia.

Nello specifico, ad essere violata, secondo gli obiettori del Ddl Zan, sarebbe stata la libertà di espressione, sancita dalla nostra Costituzione all’articolo 21:

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.”

Il sentimento precipuo degli oppositori al Ddl Zan è costituito dalla paura di un inasprimento delle pene verso chi esprime pareri contrari verso i diritti di gay e transgender. C’è da chiedersi come, alla luce dell’articolo 4 del presente disegno di legge, possa essere stata sollevata un’obiezione di tal genere, dal momento che lo stesso sancisce che “1.Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.

Infatti, la norma sembra rafforzare le libertà sancite dalla Costituzione, ribadendole espressamente. Eppure, il carattere fortemente garantista di questo articolo è stato messo in discussione dalla portata degli articoli precedenti (articoli 2 e 3), i quali hanno come obiettivo l’ampliamento della tutela penale, proponendo modifiche agli articoli 604-bis e 604-ter del Codice penale.

Gli antagonisti del Ddl Zan ritengono che l’attenzione dell’articolo 4 alla libertà di espressione avrebbe come mero obiettivo quello di salvare quelle norme del disegno di legge che sarebbero tacciabili di un giudizio di incostituzionalità. Tuttavia, nei fatti, il Ddl Zan non fa altro che ampliare le tutele predisposte dalla legge Mancino, rivelatasi insufficiente poiché applicabile soltanto alla “discriminazione e violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali”. 

Per capire realmente cosa sarebbe cambiato con l’approvazione del Ddl Zan bisogna partire dal dettato normativo degli articoli 604bis e 604ter del Codice penale.

L’articolo 604bis sarebbe stato modificato anche nella sua rubrica, che da “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa” sarebbe diventata “Propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, istigazione a delinquere e atti discriminatori e violenti per motivi razziali, etnici, religiosi o fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. D’altro canto, in diversi punti della disposizione sarebbe stata aggiunta la seguente locuzione “oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Alla luce di quanto appena esposto, ben si può osservare come in nessuna parte del testo sia punita la mera espressione del pensiero che si oppone alle unioni gay, all’adozione o al cambio di sesso.

Per quanto concerne l’articolo 604-ter del Codice penale, con l’aggiunta dell’inciso al primo comma “oppure per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”, la normativa al primo comma sarebbe diventata “Per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, oppure per motivi fondati sul sesso, sul genere, sul l’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità la pena è aumentata fino alla metà.”

A questo punto, urge domandarsi: come un’estensione della tutela penale contro le discriminazioni può rappresentare una minaccia e una pretesa illegittime?

Per quanto riguarda la tutela contro i trattamenti discriminatori basati sull’orientamento sessuale, la normativa lavoristica per diversi aspetti costituisce un’apripista. D’altronde, è lo statuto dei lavoratori, agli articoli 15 e 16, a predisporre una tutela contro i trattamenti discriminatori relativi alle assunzioni, ai licenziamenti, ai demansionamenti, alle assegnazioni professionali dettati da motivi legati all’orientamento sessuale. A onor del vero, c’è da considerare che la maggior parte delle normative relativamente “all’avanguardia” sul tema provengono da decreti legislativi di recepimento di direttive europee. Un esempio è costituito dal decreto di recepimento 216/2003 della direttiva 2000/78/CE, che prevede il principio di parità di trattamento indipendentemente dall’orientamento sessuale in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

Merita un’attenzione particolare la costernata opposizione del Vaticano al Ddl Zan. In effetti, con un atto senza precedenti, la Chiesa avrebbe chiesto formalmente al governo italiano di modificare il disegno di legge, intervenendo per la prima volta nell’iter di approvazione di una legge italiana. Il monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, ha consegnato, lo scorso 17 giugno, all’ambasciata italiana presso la Santa Sede una “nota verbale”. Nel testo si esprimevano le seguenti preoccupazioni “Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato”. I commi in questione sono quelli che assicurano alla Chiesa “la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale”, e garantiscono “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Si tratta di opposizioni che si mostrano, per molti aspetti, vagamente analoghe a quelle sollevate circa l’incostituzionalità del disegno di legge.

A destare un clamore mediatico di notevole portata è stato l’articolo 7 del Ddl Zan, che prevedeva l’istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia. La proposta è stata violentemente avversata dal centrodestra, ma anche da associazioni “pro vita” e diversi genitori, dal momento che avrebbe previsto iniziative di sensibilizzazione contro i pregiudizi sul tema nelle scuole. La gogna mediatica che ha accompagnato, da un lato queste specifiche iniziative, dall’altro l’interezza del disegno di legge, ha portato alla luce un pregiudizio radicato e diffuso nei confronti dell’omosessualità e della teoria del gender, proprio di una parte della società italiana tradizionalista e chiusa nella propria turris eburnea.

**ARTICOLO SELEZIONATO COME VINCITORE  DELLA CATEGORIA “DIRITTO PENALE ” del progetto di Law Review realizzato in collaborazione tra Associazione Culturale Fatto&Diritto e ELSA Macerata

BIBLIOGRAFIA:

https://www.thegoodintown.it/ddl-zan-bocciato-al-senato-cosa-voleva-e-perche-non-e-passato/

-https://tg24.sky.it/politica/2021/07/13/ddl-zan-senato

-https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/356433.pdf

-https://www.omofobia.org/events/events-list

-https://www.corriere.it/cronache/21_giugno_22/vaticano-ddl-zan-legge-testo-b13294ba-d2d0-11eb-9207-8df97caf9553.shtml

 

 

 

 

 

DIRITTO DEL LAVORO

 

Ubi societas ubi ius. Da dove proviene la realtà sociale per cui le donne, a parità di inquadramento professionale, guadagnano meno degli uomini? Da un lato c’è aspirazione minore, dall’altro la legislazione precedente ha segnato i ruoli maschili e femminili della società. Il principale dogma degli storici del diritto è la consapevolezza che ogni legge vigente in una epoca non vale esclusivamente fino al giorno in cui è abrogata. Prima del 1948, il regime fascista produsse tanta legislazione sul rigido confinamento delle donne in ruoli definiti e precisi, strettamente legati da un lato all’ambito privato e domestico e dall’altro alla caratteristica della capacità riproduttiva. Tali leggi hanno strutturato la società dell’epoca, ma continuano a condizionare le generazioni successive sebbene la Costituzione le abbia espunte dall’ordinamento. Ancora oggi in Italia ci sono moltissimi ambiti lavorativi a dominio femminile a viceversa. L’idea del ruolo femminile del regime fascista è ben espressa da Gentile: “la donna è del marito”. Questa mentalità nel 1934 ha prodotto dei provvedimenti legislativi che hanno regolato il lavoro femminile: le donne furono espulse da tutti gli incarichi pubblici, vennero compresse le tutele sulle condizioni di lavoro femminile nelle fabbriche, in agricoltura si stabilì che fossero pagate il 40% del salario degli uomini. Gli ordini professionali non riconoscevano la abilitazione per diverse professioni (ad esempio le avvocatesse). Il know-how professionale era limitato a certi ambiti.

Queste tabelle di classificazione professionale che il fascismo fece per legge, ancora oggi condizionano la struttura sociale e giuridica della nostra società.

Sintomo di attualità del problema è costituito dal “tetto di cristallo”. Un aforisma che traduce il concetto per cui i vertici delle maggiori organizzazioni statali e private raramente sono femminili. Un segnale d’allarme che porta ad interrogarci sulla condizione di arretratezza sociale e di insufficienza di tutele giuridiche per le lavoratrici che spesso si ripercuote sulla generalità dei consociati. Infatti, una decisione prodotta da un organo maschile è diversa da quella composta da pari uomini e donne, poiché è la compresenza dei due generi negli organi di rappresentanza che determina il tipo di decisione. I Paesi in cui la rappresentanza femminile è più avanzata (ad esempio in Ruanda) hanno prodotto politiche sociali diverse da quelli in cui è meno evoluta. È quindi interesse dell’intera collettività (in caso di ente pubblico) o dell’intera organizzazione privata, che la decisone sia presa da organi rappresentati paritariamente dai due generi per giungere ad una visione plurale e completa.

Le donne sono limitate nella possibilità del dovere di contribuire alla ricchezza del Paese con la loro competenza. Il punto è lo spreco delle risorse.

Il vero problema italiano: Gender pay gap o unemployement femminile?

Alla luce dell’analisi dei dati raccolti a livello europeo, ad emergere in modo chiaro è il cosiddetto “effetto paradosso”: l’Italia si posiziona (5%, a fronte di una media del 10%) tra i Paesi con il Gender Pay Gap minore d’Europa.

Al contrario, paradossalmente, rispetto al tasso medio di occupazione OCSE per la forza lavoro femminile, che è prossimo al 70%, l’Italia è di quasi 20 punti sotto.

Il divario retributivo è una costante in tutte le economie mondiali, anche le più aperte al mondo femminile, ed è una conseguenza di numerose disuguaglianze che le donne devono affrontare nell’accesso al lavoro, nella progressione e nei premi. Ciò che deve far riflettere, invece, è il numero degli inoccupati di sesso femminile: in Italia una donna su due non lavora e non è in cerca di lavoro. La pandemia non ha che aggravato una situazione già difficile: il numero di donne che hanno smesso di lavorare a causa del Covid-19 è stato più del doppio degli uomini e sono sempre uomini il 70% dei nuovi occupati nel 2021.

Le cause

Oltre alla suddetta segregazione settoriale, che possiamo classificare come causa di derivazione sociale-giuridica, se ne annovera una di carattere squisitamente pratico-concreta: il Work life balance, ovvero l’equilibrio tra vita e lavoro.

Le donne sono ancora troppo spesso costrette a scegliere tra lavoro e famiglia. Le ragioni possono sintetizzarsi in questi termini:

  1. Pochi asili nido. Solo il 25,5% dei bambini riesce ad accedervi.

  2. Troppe responsabilità nelle cure domestiche e familiari in capo ad esse.

 

Proposte & Riforme 

Il 26 ottobre di quest’anno, il Senato ha approvato all’unanimità il Disegno di legge sul ‘Gender pay gap’ apportando altresì rilevanti modifiche al Codice delle pari opportunità. Come riporta l’articolo 4, l’obiettivo è ridurre il divario di genere legato «alle opportunità di crescita in un’azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità». Il Ddl si concentra sugli enti privati poichè la riduzione dei differenziali salariali ed occupazionali di genere chiama in causa preminentemente il settore privato e le dinamiche retributive all’interno delle imprese.

Tra le novità più importanti si annoverano l’introduzione di strumenti per favorire la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro che possiamo in questo modo sintetizzare:

  • Estensione dell’obbligo di redigere il rapporto circa la situazione del personale anche alle aziende, sia pubbliche che private, che abbiano più di 50 dipendenti (mentre oggi è prevista solo per chi ne ha più di 100). La modifica della soglia dimensionale comporta un ampliamento della platea di imprese tenute a comunicare i dati per genere su remunerazione e inquadramento dei propri dipendenti. Un ampliamento assai significativo, poiché si passa dalle circa 13 mila imprese alle 31 mila. L’aspettativa è che l’estensione dell’obbligo renda più efficace il perseguimento dell’obiettivo dell’uguaglianza di genere nelle retribuzioni. Infatti, alcuni studi sul Regno Unito, che ha introdotto per le imprese con più di 250 dipendenti l’obbligo di pubblicare annualmente i dati relativi al gender pay gap, evidenziano che la politica di trasparenza ha ridotto il differenziale salariale di genere nelle imprese interessate dagli obblighi rispetto a quelle che non lo sono. Infine, viene aggiunta la possibilità, da parte dei dipendenti e delle rappresentanze sindacali, di accedere ai dati del suddetto rapporto.
  • Introduzione della Certificazione della parità di genere quale riconoscimento alle aziende che si muovono nella direzione di maggiore parità tra i generi. I dettagli sui requisiti da soddisfare per ottenerla sono demandati a futuri decreti. La Certificazione sarà accompagnata, peraltro, da un conseguente meccanismo di premialità consistente in uno sgravio contributivo fino a 50mila euro all’anno per ciascuna azienda che incentiva i datori di lavoro a prevenire i potenziali divari retributivi e a promuovere la cultura delle pari opportunità. Inoltre, la certificazione di parità garantirà un punteggio premiale nell’assegnazione di fondi e nella partecipazione a gare e avvisi banditi dalle amministrazioni.
  • Estensione, per le aziende pubbliche, della legge Golfo-Mosca sulle “quote rosa” negli organi collegiali di amministrazione delle società quotate in Borsa, ossia, la regola dei due quinti di presenze femminili nei consigli di amministrazione per i primi sei mandati successivi all’applicazione della norma.
  • Modifica della nozione di discriminazione diretta e indiretta. In particolare, la novità certamente più interessante attiene la modifica della nozione di “discriminazione indiretta” sul luogo di lavoro. Alla suddetta, saranno unite, ex art 2 del Codice delle pari opportunità, quelle di “natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro”, con il relativo divieto di porre in essere: ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti. L’obiettivo è evitare che si crei una situazione di “svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori”, una “limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali” oppure “dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera”. Qui il legislatore ha centrato pienamente l’aspetto che confligge più di ogni altro con le vite concrete delle lavoratrici specie se madri, e surrettiziamente introducono differenti trattamenti che mettono in una situazione di svantaggio la donna lavoratrice. Per fare un esempio concreto: un’organizzazione oraria del lavoro che preveda di essere inderogabilmente sul posto di lavoro prima dell’orario di apertura dell’asilo nido o della scuola, può sembrare neutrale ma non lo è per chi ha figli piccoli, così come lo spostamento in sedi lontane. Sono proprio questi i requisiti apparentemente ‘neutri’ che possono essere utilizzati al fine di discriminare

È una misura sufficiente?

Il recente intervento normativo va nella direzione giusta. Rappresenta non solo un passaggio significativo verso il contrasto alla disuguaglianza di genere e in particolare alla disuguaglianza salariale, ma anche un punto di partenza verso l’attuazione effettiva dell’articolo 37 della Costituzione in tema di parità retributiva tra uomo e donna e di opportunità di crescita economica del Paese. Ma, è chiaro che non può bastare.

Il “premio” monetario suggerisce che serve ancora tempo per arrivare al momento in cui l’uguaglianza di genere non sia considerata un costo per le imprese (per cui devono essere compensate), ma un vantaggio. Bisogna agire affinchè nasca una cultura diversa, capace di colmare il gap anche nelle attività private attraverso una formazione defiscalizzata.

Un segnale positivo è sicuramente costituito dai 38,5 miliardi di euro stanziati dal PNRR per ridurre proprio il “gender pay gap”. Questi verranno impiegati principalmente su due fronti: imprenditorialità femminile e al potenziamento degli asili nido e delle scuole dell’infanzia.

Contrastare l’emarginazione femminile nel lavoro non è un mero esercizio di parità, ma è un investimento per il Paese in termini di Pil, di qualità della vita e giustizia sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIRITTO DELL’ UNIONE EUROPEA

A seguito della pandemia di COVID 19, a fronte di numerose polemiche e non pochi dubbi, non è stato sempre semplice bilanciare il diritto all’autodeterminazione dei singoli e l’interesse della collettività. L’inizio della campagna vaccinale, risalente ormai ad un anno fa, Dicembre 2020, ha segnato lo sviluppo di una “differenziazione” fra cittadini, vaccinati e non, e più nello specifico, attualmente, fra soggetti muniti di green pass e soggetti che non lo sono.

Numerose sono state, nel corso di quasi due anni, da parte dei governi di tutto il mondo, le restrizioni introdotte per contenere gli effetti negativi della pandemia, e molti si sono interrogati sin da subito sulla costituzionalità delle stesse (a partire dal lockdown fino ad arrivare alla discussione di un possibile obbligo vaccinale).

Alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea è stata più volte contestata l’introduzione della certificazione verde, ritenuta da alcuni cittadini europei, fra essi una cittadina di nazionalità italiana, come discriminante (causa T-527/21 R).

La Corte si è recentemente espressa a favore del Green Pass, sottolineando come lo stesso miri proprio a facilitare l’esercizio del diritto di libera circolazione all’interno dell’Unione durante la pandemia Covid-19 e non sia quindi una discriminazione ma piuttosto un’agevolazione. Inoltre, al fine di proteggere i diritti di tutti i cittadini, il regolamento (UE) 2021/953 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 Giugno 2021 su un quadro per il rilascio, la verifica e l’accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione COVID-19, tampone e certificato di guarigione (certificato COVID digitale dell’UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19 (testo rilevante ai fini del SEE) con un’aggiunta invita a “evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti COVID-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate o hanno scelto di non essere vaccinate”

E proprio a proposito della libera circolazione, l’art.16 della Carta Costituzionale italiana recita “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza” , continua “Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge”

Da ciò è possibile quindi affermare che i provvedimenti, essendo atti aventi forza di legge, lo strumento normativo utilizzato nel nostro Paese per disciplinare la situazione pandemica (in stato di emergenza dettato dalla pandemia equiparabili a legge) rispettano perfettamente i principi costituzionali dato che le limitazioni stabilite rientrano nei motivi di sanità pubblica.

L’ultimo Decreto Legge, n.172 del 26 Novembre 2021, ha previsto nel nostro Paese nuove restrizioni per arginare gli effetti della quarta ondata di COVID-19. In particolare il decreto prevede l’estensione dell’obbligo vaccinale alla terza dose nonché l’estensione dell’obbligo a nuove categorie; è stato inoltre istituito (a decorrere dal 6 Dicembre 2021) il cd. Green Pass rafforzato seguito da un rafforzamento ulteriore dei controlli e delle campagne promozionali sulla vaccinazione. Il testo approvato ha previsto: (a) una riduzione della durata del certificato verde, la cui validità passa da 12 mesi a 9 mesi; (b) l’estensione dell’obbligatorietà della certificazione a alberghi; spogliatoi per l’attività sportiva; servizi di trasporto ferroviario regionale e interregionale e servizi di trasporto pubblico locale.

Inoltre a decorrere dal 6 dicembre 2021 (c) è stato introdotto il Green Pass cd. rafforzato, valido per coloro che sono vaccinati oppure guariti. Il nuovo Certificato verde sarà indispensabile per accedere a tutte quelle attività che, in zona gialla, sarebbero oggetto di restrizioni, i quali, spettacoli; eventi sportivi; ristorazione al chiuso; feste e discoteche e cerimonie pubbliche. Nell’eventualità di un passaggio in zona arancione non scatteranno le restrizioni e le limitazioni, anche se alle attività potranno accedere i soli detentori di Green Pass rafforzato. In aggiunta, in prossimità delle festività natalizie, dal 6 dicembre 2021 e fino al 15 gennaio 2022 è stato previsto che il Green Pass rafforzato sarà esteso allo svolgimento delle attività, che altrimenti sarebbero oggetto di restrizioni in zona gialla, anche alle regioni in zona bianca.

I decreti legge introdotti in Italia sono atti aventi valore di legge che costituiscono una legittima limitazione alla libera circolazione dei cittadini per motivi di sanità pubblica. E non può dirsi che ci sia una violazione del principio di uguaglianza in quanto esso stesso richiede di “trattare situazioni uguali in maniera uguale e situazioni diverse in maniera diversa”. È lampante, alla luce dei dati medico-scientifici come la condizione di vaccinato sia diversa da quella dei non vaccinati. I soggetti vaccinati non possono dirsi uguali ai non vaccinati (ovviamente solo dal punto di vista dell’impatto epidemiologico) perché, se è vero che possono anch’essi contagiarsi e contagiare gli altri, è altresì vero che, per loro, la probabilità che questa situazione si verifichi cala drasticamente e, se anche dovesse accadere, comunque la malattia per loro produrrebbe conseguenze esponenzialmente meno pericolose. I vaccinati inoltre proteggono anche i non vaccinati perché si ammalano di meno, e anche perché, quando anche si ammalassero, sarebbero comunque meno contagiosi, e avrebbero certamente minore necessità di cure sanitarie, lasciando le risorse del Servizio sanitario nazionale libere di intervenire a tutela degli altri malati che necessitano di ospedalizzazione.

Il green pass consente ai vaccinati di partecipare in relativa sicurezza – e comunque mantenendo sempre attive tutte le precauzioni relative a mascherine, distanziamento fisico ecc. – ad alcune attività sociali dalle quali è, invece, meglio che siano esclusi i non vaccinati”.

Inoltre è opportuno aggiungere che la scelta è rimessa, per ora, ai cittadini non essendo ancora presente un vero e proprio obbligo vaccinale, ma con l’introduzione del “Super Green Pass” è stato sicuramente fatto un passo avanti in quella direzione.

 

 

 

 

                                                                                       DIRITTO AMBIENTALE

ECONOMIA CIRCOLARE E SMART CITY: UNO SGUARDO AL FUTURO

La produzione di rifiuti sul suolo europeo supera i 2,5 miliardi di tonnellate, per ovviare tale problema l’Unione
Europea negli ultimi decenni ha provveduto ad arginarlo con l’aggiornamento della legislazione in materia di
gestione dei rifiuti.
Si tratta di un problema che affonda le sue radici nel lontano XIX secolo, durante la rivoluzione industriale, in
cui assistiamo ad un enorme mutamento della società. Un esempio lampante è la città di Londra, che, in
brevissimo tempo, si converte in una metropoli la cui produzione, industriale e in serie, subisce una
esponenziale crescita. Qui sorge la difficoltà: vi fu, da un lato, la crescita della produzione, ma dall’altro, non
venne previsto un sistema di smaltimento di rifiuti idoneo a contenere tali maggiori fonti di inquinamento e
sporcizia.
Nel 1850 vennero introdotti i recipienti della raccolta dei rifiuti e la situazione emergenziale iniziò a rientrare.
Con il passare degli anni, nell’era del consumismo, i rifiuti divennero qualcosa da allontanare dalle città,
iniziando così a farsi strada la consapevolezza e la volontà dell’uomo di scaricarli e abbandonarli il più lontano
possibile dai centri abitati. Un comportamento che presuppone un ambiente naturale che cambi la propria
funzione e che assuma la forma di una discarica a cielo aperto e dalla capacità infinita.
Presto ci si accorse dei gravissimi danni provocati da questa strategia, aggravati anche dalla comparsa di nuovi
materiali, plastiche e primi apparecchi elettronici. In aggiunta, il boom economico del secolo scorso ha
accentuato questo percorso: in una società in cui l’imperativo è comprare e consumare, non c’è posto per
pensare al destino di tutto ciò che si getta via. Con queste premesse è chiaro come la produzione di rifiuti
giunse alle stelle, concentrandosi nelle città e aumentando al ritmo della crescita economica.
Come anticipato all’inizio dell’articolo, l’UE attualmente continua a procedere nello studio di strategie al fine
di sfruttare sempre più i rifiuti e limitare un’altra incombenza: l’esaurimento delle fonti naturali di energia,
diretta conseguenza dell’economia lineare, basata sull’estrazione di queste ultime.
Come? Attraverso l’introduzione di un nuovo modello economico, la cosiddetta “economia circolare”.
L’economia circolare è, in primo luogo, un modello di produzione e di consumo basato sulla condivisione, sul
riutilizzo, riciclo dei materiali e prodotti già esistenti. In secondo luogo, come risulta chiaro dalla sua
definizione, essa è l’antitesi dell’economia lineare, che ha governato costantemente la nostra politica
economica, portandola ad un graduale fallimento, in quanto basata sulla continua estrazione delle materie
prime, sulla produzione e utilizzo di beni destinati a diventare rifiuti non più sostenibili a livello ambientale.
Al contrario, l’economia circolare provvede ad allungare il ciclo vitale dei prodotti, contribuendo
notevolmente a ridurre i rifiuti. Una volta che il bene ha terminato la sua funzione, i materiali di cui era
composto vengono reintrodotti nel ciclo economico, generando ulteriore valore e limitando l’estrazione delle
materie prime.
Da questa trattazione, emerge che sono davvero molteplici i benefici che si possono trarre da questo schema di
comportamento economico: riduzione dell’inquinamento ambientale, più sicurezza circa la disponibilità di
materie prime, incremento dell’occupazione e aumento della competitività. Ancora, analizzando i dati dell’UE,
emerge che, attraverso misure come quelle appena indicate, le imprese europee otterrebbero un risparmio
netto di 600 miliardi di euro, pari all’8 % del fatturato annuo e ridurrebbero, nel contempo, le emissioni totali
annue di gas serra del 2-4 %
La conseguenza più eclatante di questa economia circolare è la formazione di SMART CITY, ovvero città
intelligenti in cui, grazie all’utilizzo generale dell’innovazione tecnologica, è possibile ottimizzare e migliorare le
infrastrutture e i servizi ai cittadini rendendoli più efficienti. In particolare, si tratta di introdurre l’Internet of
things (ossia la tecnologia) nelle diverse sfere della pubblica amministrazione: trasporti pubblici e mobilità,
gestione e distribuzione dell’energia, illuminazione pubblica, sicurezza urbana, gestione e monitoraggio
ambientale, gestione dei rifiuti, manutenzione e ottimizzazione degli edifici pubblici, sistemi di comunicazione e
informazione e altri servizi di pubblica utilità.
Ovviamente, l’UE ha stabilito le caratteristiche che una smart city deve necessariamente avere: le “smart
people”: cittadini coinvolti e partecipi, attraverso il processo decisionale di “bottom up” cioè da basso verso
l’alto e di politica partecipativa; “smart governance” in quanto, come ricordato, l’amministrazione deve dare
centralità al capitale umano e alle risorse ambientali; “smart economy” che vede l’economia e il commercio
urbano rivolti all’aumento della produttività basandosi sull’innovazione tecnologica; “smart living”, che innalza
il livello di benessere garantito ai cittadini; “smart mobility” soluzioni di mobilità intelligente; “smart
environment” sviluppo sostenibile, con basso impatto ambientale.
Nel 2020, questo sistema teorizzato e disciplinato dall’UE, inizia a trovare applicazione in diverse città:
Amsterdam, che cerca sempre più sostenibilità, Londra, che punta sulla raccolta e sull’analisi dei dati, Singapore
diventa la città-Stato più intelligente del mondo, a Milano vincono la mobilità sostenibile e le start up, mentre
Firenze si converte nella città più digitale d’Italia. Con questa prospettiva, saremo in grado di fare nostro il
futuro, salvaguardando quell’elemento che sfruttiamo da secoli, senza regalarle nulla in cambio: la terra.

Eleonora Borroni

Fonti utilizzate:

economiacircolare.confindustria.it; www.economyup.i; it.businessinsider.com

Il rapporto tra le smart cities e l’economia circolare
Un caso emblematico: la città di Malmö

Secondo uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2013, si stima che la popolazione
mondiale raddoppierà entro il 2050. Entro il 2030 invece, 6 persone su 10 vivranno in una città. Il binomio
indissolubile costituito da popolazione urbana e città, che si è imposto prepotentemente dalla Rivoluzione
Industriale, necessita però di una rivisitazione. Quanto più il pianeta diventa urbanizzato, tanto più le città
devono diventare ‘smart’. In questo contesto, importanza capitale assume l’adozione all’unanimità da parte
dei 193 Paesi Membri delle Nazioni Unite della risoluzione 70/1, “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda
2030 per lo sviluppo sostenibile”. L’Agenda, entrata in vigore il 1° gennaio del 2016, esprime in sé un
progetto ambizioso- come rivelano i 17 obiettivi e i 169 ‘targets’ o traguardi che gli Stati Membri ONU si
sono impegnati a raggiungere entro il 2030- intrecciando le 3 dimensioni dello sviluppo sostenibile: crescita
economica, inclusione sociale e tutela dell’ambiente.
Nel panorama europeo, questi obiettivi erano già al centro dell’Agenda politica svedese dagli anni ‘90, e
l’esempio emblematico per comprendere al meglio il rapporto tra smart cities ed economia circolare è
costituito dalla città di Malmö, terza città svedese per densità abitativa, trasformatasi nell’arco di qualche
decennio da città in decadenza a smart city. Il motto della città -“La sostenibilità inizia qui”- non è solo
un’affermazione di principio, ma una vera e propria sfida per l’amministrazione, che ha potuto, proprio
grazie alla sua lungimiranza, diventare- tra le altre cose- parte di un progetto pilota, beneficiando così di
finanziamenti stanziati dalla Commissione Europea, meglio noti come GPP (Green Public Procurement) che
attraverso gli appalti pubblici favoriscono una transizione ‘green’ verso un’economia circolare.
Ma per essere più concreti, in cosa consiste la sinergia tra economia circolare e smart city? Per capirlo, basta
rivolgere lo sguardo al distretto di Västra Hamnen (Western Harbor) “Il primo vicinato a emissioni zero
d’Europa” come è stato ribattezzato in modo pregnante. Da fervido cantiere navale che dava lavoro a
migliaia di persone negli anni ‘60 del secolo scorso, si è trasformato, alle soglie del nuovo millennio, in
un quartiere che accoglie più di 4000 residenti, guadagnandosi l’appellativo di “Città di domani”. Basta
pernottare, in una delle strutture del quartiere, per toccare con mano l’innovazione di cui stiamo
parlando. Il distretto usa infatti un sistema di accumulo di energia termica acquifero che permette,
tramite un sistema di turbine a energia eolica che pompa l’acqua nelle residenze private, di riscaldare le
stesse d’inverno con l’acqua immagazzinata durante la stagione estiva. Poiché uno dei pilastri
dell’economia circolare è quello secondo cui il rifiuto costituisce nutrimento, l’acqua così refrigerata
viene riutilizzata durante la stagione estiva per raffreddare gli edifici, rendendo così superfluo l’utilizzo
di condizionatori d’aria. Inoltre, in questo distretto è praticamente impossibile imbattersi in auto private:
l’efficiente trasporto pubblico e i 490 km di piste ciclabili che collegano i vari distretti della città, fa sì
che il 25% degli abitanti prediliga le due ruote per spostarsi. Ciò costituisce indubbiamente un risparmio
non indifferente, sia dal punto di vista ambientale, sia di bilancio, che l’amministrazione ha modo di
rinvestire in politiche sociali inclusive.
E se nel 2020, anno che sarà ricordato dalle generazioni future per il devastante impatto causato dalla
pandemia di Covid-19, le città sono state gli scenari prediletti di diffusione del virus, a maggior ragione le
parole del Segretario Generale dell’Onu António Guterres non devono rimanere inascoltate: “I più
vulnerabili alla malattia sono coloro che vivono ai margini delle città. La vita urbana non pianificata lascia
le persone vulnerabili ”.
Del resto, il World Cities Report 2020 pubblicato dall’ United Nations Human Settlements Programme (UNHabitat) non lascia adito ad alcun dubbio: la pianificazione, la gestione e il finanziamento intelligente delle
città sono parole chiave di un nuovo modus operandi che permetterà alle città del futuro di sviluppare quella
resilienza socio-economica indispensabile a migliorare la qualità della vita dei residenti e a rispondere con
forza alle nuove sfide della globalizzazione, della povertà e degli incalzanti cambianti climatici.

Alessandra Chiarini

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
Camera dei Deputati, Servizio Studi, XVII legislatura, “La Comunità internazionale e l’attuazione
dell’Agenda globale
per lo sviluppo sostenibile”, pubblicato il 19 Giugno 2020
Caragliu, A, Del Bo, C. & Nijkamp, P, Smart cities in Europe, VU University Amsterdam, Faculty of
Economics, Business Administration and Econometrics, 2009.
DIRECTORATE GENERAL FOR INTERNAL POLICIES POLICY DEPARTMENT A:
ECONOMIC AND SCIENTIFIC POLICY Mapping Smart Cities in the EU, January 2014 PE 507.480
EN
Europe’s ‘First Carbon-Neutral Neighborhood’: Western Harbour, 3 Luglio 2012, Gai Pei Ling
https://www.nationalgeographic.com/environment/great-energy-challenge/2012/europes-firstcarbon-neutral-neighborhood-western-harbour/ (Articolo del 3 Luglio 2012, Ultimo accesso 21
Novembre 2020)
GPP in practice: issue no. 88 May 2019 “Furniture framework applying circular economy principles
City of Malmö (Sweden)”
https://greenbiz.it/green-management/ricerca-a-innovazione/smart-city/11729-malmo-svezia-smartcity#:~:text=Da%20citt%C3%A0%20industriale%20in%20decadenza,architettura%20sostenibile%2
0e%20trasporti%20alternativi. (Articolo del 1 Ottobre 2014, Ultimo accesso 21 Novembre 2020)
https://malmo.se/Nice-to-know-about-Malmo/Sustainable-Malmo-/Localising-the-SDGs-of-the2030-Agenda/Strategy-for-localising-the-SDGs.html ultimo accesso 21 Novembre 2020
https://www.sustaineurope.com/malm%C3%B6-sustainability-starts-here-20200630.html (Articolo
del 23 Luglio 2020, Ultimo accesso 21 Novembre 2020)
https://www.who.int/data/gho/data/themes/theme-details/GHO/urban-health (Ultimo accesso 21
Novembre 2020)
Smart city: la rivoluzione intelligente di Malmö, Svezia, 01 Ottobre 2014, Lisa Vagnozzi
World Cities Report 2020 The Value of Sustainable Urbanization Key Findings and Messages
https://unhabitat.org/sites/default/files/2020/11/world_cities_report_2020_abridged_version.pdf
ultimo accesso 21 Novembre 2020

 

 

                                                                                            DIRITTO PENALE

Soltanto una svista o vero lapsus freudiano? Per la Cassazione le conclusioni del
consulente tecnico del PM hanno maggiore attendibilità

Per Freud i lapsus non sono semplici errori casuali ma sono modi di espressione
indiretta del nostro inconscio. La sentenza 16458/2020 della Cassazione Sez. III
Penale ne è l’esemplificazione perfetta. Ora vi spiego il perché. Nella decisione, per
ben tre volte, troviamo l’espressione “perizia disposta dal PM”, espressione con cui
la Corte sembra trascurare la distinzione tra perizia (mezzo di prova “neutro” perché
disposto dal giudice, equidistante dalle parti, che vi ricorre quando sia necessario
l’intervento di un soggetto con particolari competenze tecnico-scientifiche) e
consulenza tecnica (mezzo a disposizione delle parti, tra le quali il PM, previsto per
rendere effettivo il loro diritto alla prova, quando questa possa essere fornita solo
con determinate competenze tecnico-scientifiche). Un semplice errore di
confusione, si potrebbe pensare; in realtà, leggendo integralmente la sentenza,
comprendiamo che quella espressione è un vero e proprio lapsus freudiano, cioè
corrisponde esattamente alla concezione che ha la Corte dell’apporto dato dal
consulente tecnico nominato dal PM al processo: per la Corte infatti le conclusioni
del consulente tecnico (di seguito CT) nominato dal PM “hanno una valenza
probatoria non comparabile a quella (delle conclusioni) dei CT delle altre parti”, in
quanto perseguirebbe, il CT della parte pubblica, la stessa precipua funzione che
persegue l’organo che lo ha nominato, che la Corte individua ex articolo 358 cpp
nell’accertamento dei fatti.
La pretesa maggiore affidabilità del CT del PM non è però compatibile con un
sistema accusatorio come il nostro, con tutte le edulcorazioni che pure lo
caratterizzano. Nel sistema accusatorio vige, infatti, il principio della parità delle
parti: il PM, seppur parte pubblica, è pur sempre una parte, quindi per dimostrare la
colpevolezza dell’imputato (che è innocente fino a prova contraria: presunzione
d’innocenza, cardine del sistema) deve avere a disposizione le stesse armi che hanno
a disposizione le altre parti. Prevedendo invece che il CT del PM abbia maggiore
attendibilità, si svantaggia la Difesa, che non solo vedrà compromesso il proprio
‘diritto di difendersi provando’ perché deve confutare affermazioni dotate di una
presunzione di maggiore attendibilità, non prevista dal codice, per il solo fatto che
provengano dal consulente dell’Accusa, ma si vedrà inoltre gravata da un’inversione
dell’onere probatorio, che la Legge pone a carico dell’Accusa, in quanto dovrà essere
essa stessa a confutare in modo specifico le conclusioni del CT del PM se non vuole
che queste vengano assunte per vere dal giudice.
Questa incompatibilità è confermata dall’assetto normativo che infatti prevede che
il PM si avvalga di un CT e non dello stesso perito del giudice, come era nel
precedente codice, proprio perché la funzione precipua del PM è sostenere l’ipotesi
accusatoria (per questo è parte, a questo fine svolge le indagini) ed è in quest’ottica
che si avvale del consulente, che fornirà quindi una valutazione tecnica in linea con
la ricostruzione dell’Accusa stessa (infatti il codice non prevede che il CT presti
giuramento).
Non sembra condivisibile neppure la premessa che conduce a questo risultato (cioè
che la maggiore attendibilità del CT del PM derivi dal fatto che il suo compito
sarebbe accertare i fatti, stesso compito dell’organo che ha nominato): infatti
compito precipuo del PM è dimostrare la colpevolezza dell’imputato, dimostrazione
cui è funzionale il CT, e non invece l’accertamento dei fatti, compito del giudice.
Rinvenire nell’articolo 358 cpp, nella parte in cui prevede che il PM svolga
accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini,
l’attribuzione al PM della funzione tipica invece del giudice, significherebbe
realizzare una sovrapposizione tra PM e giudice, inaccettabile in un sistema
accusatorio. Più compatibile con il nostro sistema è invece l’interpretazione che
vede la ricerca di elementi anche a favore dell’indagato come funzionale ad un
corretto esercizio della scelta tra azione ed inazione del PM, in quanto laddove
esercitasse l’azione penale senza avere il quadro completo degli elementi (inclusi
quindi quelli a favore) ne rischierebbe il fallimento irrimediabile alle prime battute
del processo appena instaurato.
A modesto parere di chi scrive, attribuire maggiore affidabilità al consulente di una
delle parti rischia anche di indebolire l’obbligo motivazionale del giudice, che
potrebbe tranquillamente preferire le conclusioni dell’uno senza sforzarsi di
motivare questa preferenza con argomentazioni che si basino sul merito delle
conclusioni, ma con il semplice rilievo della pretesa maggiore autorità della fonte
dalla quale provengono queste argomentazioni.
L’unico criterio per misurare l’attendibilità effettiva è la forza delle argomentazioni.

Jessica Di Biase

Bibliografia/Sitografia:
• “Una grave mistificazione inquisitoria: la pretesa fede privilegiata del
responso del consulente tecnico dell’accusa” – Roberto E. Kostoris, Sistema
Penale
• “Spangher: né inquisitorio né accusatorio. Il nostro è un modello misto ma è
saltato nel 1992”, intervista a Giorgio Spangher a cura di Giulia Merlo, Il
Dubbio
• “L’art. 358 c.p.p. è davvero il lasciapassare che permette di attribuire una fede
privilegiata alle attività di indagine dell’accusa?” – Sofia Barbera, Diritto.it
• “Quale status per il consulente tecnico del Pubblico Ministero?” di Annalisa
Gasparre, Diritto Penale Contemporaneo
• “Fondamenti di Procedura Penale”, Cedam, Wolters Kluwer

La consulenza tecnica nel processo penale: tra modello accusatorio e modello
inquisitorio

“Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità […]” (art.
111 Cost.).
È davvero così?
Da anni assistiamo a processi in cui la prova si forma al di fuori del contraddittorio, in
contesti in cui il P.M. predomina sul difensore.
Recentemente la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al valore probatorio della
consulenza tecnica dell’accusa rispetto a quella della difesa, confermando un principio che
da qualche anno aleggiava tra le aule della Suprema Corte: “l’accusa conta più della difesa”.
Nel nostro ordinamento la consulenza tecnica può essere esperita da entrambe le parti sia
nell’ambito di una perizia già predisposta dal Giudice (art. 225 c.p.p.), sia “extra perizia”,
ovvero indipendentemente dall’attività dell’organo giudicante (disciplinata dall’art. 233
c.p.p.).
Il P.M., ai sensi dell’art. 359 c.p.p., può nominare un consulente tecnico qualora gli
accertamenti da svolgere richiedano particolari competenze. Stessa facoltà è prevista per
l’avvocato difensore il quale, ex art. 327 bis c.p.p., può svolgere le sue indagini avvalendosi
del supporto di consulenti tecnici quando sono necessarie specifiche competenze.
Come anticipato in premessa, l’attività giudiziaria delle parti nel processo si muove
all’interno di un sistema, quello accusatorio, e di un principio, quello del contraddittorio,
introdotto nella nostra Costituzione all’art. 111, il quale evoca l’idea della
compartecipazione di accusa e difesa nel processo, in una condizione di parità sostanziale
durante le fasi di formazione della prova.
L’equidistanza in parola si dovrebbe estendere agli ausiliari di cui le parti stesse si servono
nella ricerca della prova, e ciò, nonostante l’opposta funzione che queste assolvono nel
corso del giudizio.
A ben vedere, infatti, l’attività del P.M. si caratterizza in quanto mossa da un interesse
pubblico e orientata allo svolgimento di “accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato”;
la funzione giuridica svolta dalla pubblica accusa si estende anche al consulente di questa,
il quale quindi riveste la qualifica di Pubblico Ufficiale (cfr Cass. pen. VI sez. n. 2675/1996
per cui “ai consulenti nominati dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 359 cod. proc. pen., spetta la
qualifica di pubblici ufficiali. I predetti invero, a differenza dei consulenti dell’imputato che perseguono
interessi di parte privata, concorrono oggettivamente all’esercizio della funzione giudiziaria”).
Il percorso che ha portato all’affermazione del principio esposto in premessa inizia nel
2014 quando la Corte di Cassazione si è pronunciata su un ricorso il quale censurava
l’omesso esame della consulenza tecnica della difesa.
Con la sentenza n. 42937 i Giudici si sono espressi sottolineando come la priorità attribuita
alla consulenza tecnica dell’accusa nasce dalla “natura stessa dell’organo e del suo diritto/dovere
di ricercare anche le prove a favore dell’indagato” e che l’operato dei consulenti tecnici chiamati
ad affiancare il P.M. può essere messo in discussione solo “a fronte di gravi carenze logiche” o
confutazioni da parte della difesa la cui consulenza tecnica non costituirebbe un mezzo di
prova, ma una “mera allegazione difensiva”.
A maggio del 2020 la Suprema Corte (sent. 164589), affermando il principio per cui “le
conclusioni del consulente tecnico del Pubblico Ministero, pur costituendo il prodotto di un’indagine di
parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dalla consulenza tecnica
della difesa”, ha generato indignazione e profondo sgomento tra avvocati e giuristi.
Gli Ermellini nella sentenza hanno fatto leva sull’art. 358 c.p.p. e dunque sul fatto che il
P.M. “non è portatore di interessi di parte” al contrario della difesa, e le sue indagini dovrebbero
essere finalizzate alla ricerca della verità, rivestendo quindi “una valenza probatoria non
comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio”.
Come per attenuare la portata del principio espresso, i Giudici riconoscono valore alla
consulenza tecnica della difesa quando questa sia in grado di “superare le avverse conclusioni di
altra indagine […] con controargomentazioni specifiche, rilievi precisi e circostanziati”.
Secondo chi scrive, le conclusioni cui la Corte perviene aggravano la posizione della difesa,
attribuendo a priori alla consulenza tecnica dell’accusa una insindacabilità fino a prova
contraria, affievolendo sempre di più il principio del contraddittorio e la parità delle parti
nella formazione della prova.
Da un punto di vista sostanziale, le conclusioni della Suprema Corte mostrano una realtà
lontana anni luce dal sistema processuale accusatorio cui l’ordinamento si ispira, in netto
contrasto con la Costituzione, contribuendo ad ampliare quel solco che da anni sta
deteriorando il nostro sistema processuale penale

Carola Cambruzzi

La valenza probatoria delle conclusioni tratte dal consulente del PM e dal consulente tecnico
della difesa: commento a Cass. pen., Sez. III, 29 maggio 2020, n. 16458.

Premessa. Il nostro sistema penale -ormai dall’entrata in vigore, nel 1988, dell’odierno Codice
Vassalli- segue un’impostazione prevalentemente accusatoria del processo, in netta cesura con
l’afflato inquisitorio del previgente codice del 1930. Caratteristica distintiva di questo impianto è la
garanzia (almeno tendenziale) di una dialettica paritaria fra le parti, in attuazione al principio di
parità delle armi sancito dall’art. 111, comma 2 Cost. e assunto a garanzia di “giusto processo”
anche dall’art. 6 della CEDU.
Altrimenti detto, tutte le parti del processo devono poter provvedere alla raccolta delle prove e
contribuire in egual misura alla formazione della decisione del giudice, partecipando -in definitivaalla ricostruzione della c.d. verità processuale.
Proprio sotto questo profilo, l’attenzione della dottrina penalistica è stata “scossa” dalle statuizioni
contenute in una recente pronuncia della III Sezione della Corte di Cassazione penale (Sez. III, 18
febbraio 2020 (dep. 29 maggio 2020), n, 16458) circa il valore probatorio della consulenza tecnica
espletata per conto del PM e della difesa.
Il caso. La vicenda di merito riguarda un abuso edilizio perpetrato nella ricostruzione e demolizione
di un manufatto rurale collocato in una zona paesaggisticamente vincolata. L’imputata veniva
accusata di aver realizzato una “nuova costruzione” non autorizzata, risultando, all’esito
dell’intervento, un edificio con importanti difformità strutturali rispetto dall’opera originale; per
contro, la difesa collocava le modifiche fra gli “interventi di manutenzione straordinaria” per cui era
stato regolarmente ottenuto il rilascio di premesso a costruire ad opera del Comune competente.
A supporto della diversa qualificazione giuridica dell’intervento, accusa e difesa producevano
ciascuna la propria consulenza tecnica.
Dopo due pronunce a favore della tesi accusatoria, l’imputata ricorreva in Cassazione adducendo,
fra gli altri, un vizio di motivazione, fondato sulla considerazione che la consulenza del PM fosse
stata “apoditticamente preferita” senza alcun accertamento tecnico che ne avvalorasse le risultanze a
dispetto di quelle prodotte dalla difesa.
Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte, oltre ad osservare la carenza di adeguate
controargomentazioni tecniche da parte della difesa, si è addentrata nell’enunciazione di un
principio quantomai ardito. Secondo la Corte, infatti, “le conclusioni tratte dal consulente del PM
[…], pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una
sostanziale priorità rispetto a quelle del consulente tecnico della difesa”, ovvero dotate di “una
valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti in giudizio”.
Gli argomenti della Corte. A sostegno del principio di sostanziale priorità della consulenza del
PM, che già da solo basta a sollevare le più aspre critiche, si adduce un apparato argomentativo
censurabile in più punti.
Prima nota di demerito è l’uso inappropriato del lessico codicistico. La Corte si riferisce più volte
alla prova tecnica prodotta dal PM -anziché in termini di “consulenza tecnica”- come “perizia”,
nozione che, invece, designa la sola attività dell’esperto nominato dal giudice.
Questa sovrapposizione concettuale non può dirsi “neutra” poichè nemmeno l’utilizzo di due
termini distinti nel codice lo è: le valutazioni tecnico-scientifiche introdotte nel processo assumono
una denominazione ed un valore probatorio diverso a seconda che a darne impulso sia stata la scelta
imparziale del giudice o quella “interessata” delle parti, pubblica e privata, che, in quanto tali,
seguono una specifica tesi ricostruttiva.
Dunque, parlando di “perizia disposta dal PM”, la Corte non solo, compie una grossolana
violazione del dato normativo di cui all’art. 225 c.p.p. che riconosce alle parti eguale facoltà di
nominare dei propri consulenti tecnici; ma avvalora altresì un pericoloso accostamento del ruolo
processuale del Pubblico Ministero alla figura del giudice, in una sorta di “passo all’indietro” al
sistema inquisitorio.
Nel prosieguo della sentenza -benché il linguaggio venga corretto- questa assimilazione diviene
ancor più esplicita: si legge, infatti, a chiare lettere che l’operato del PM, e di riflesso quello del suo
consulente tecnico, vadano ascritti all’esercizio di “attività di natura giurisdizionale”.
Un’affermazione di tal tenore potrebbe salvarsi se riferita alla partecipazione del PM, nell’esercizio
delle sue funzioni di magistrato, alla potestà pubblica di “vegliare all’osservanza della legge e alla
pronta e regolare amministrazione della giustizia”, come prescrive l’art. 73 ord. giud.; ma, di fatto,
la sentenza si riporta al momento strettamente processuale (“[…]pur nell’ambito della dialettica
processuale”). E qui non c’è dubbio: nel processo, il PM non si trova nella condizione di
imparzialità necessaria all’esercizio di una “funzione giurisdizionale”.
Lo sviluppo della sentenza è, inoltre, intriso di salti logici e la Corte cade in continue
contraddizioni, prima riconoscendo e poi negando al pubblico ministero il ruolo di parte.
In proposito, si fa leva sul disposto dell’art. 358 c.p.p., peraltro unico appiglio giuridico richiamato
nella sentenza. La norma in questione statuisce il diritto/dovere del PM, in fase di indagine, di
“svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”:
è interpretazione consolidata che da questa previsione si debba desumere il solo obbligo alla
completezza delle indagini, per cui l’accusa, al fine di evitare azioni penali infondate o superflue,
deve provvedere a ricercare anche eventuali elementi a discarico dell’imputato.
Al contrario, la Cassazione, richiamando un precedente conforme della Seconda Sezione (sent.
42937/2014), vi ricava una presunzione di assoluta attendibilità delle prove fornite dal PM
(unitamente al suo ausiliario) “che ha come proprio obiettivo quello della ricerca della verità”, quasi
a mettere in dubbio che stesso obiettivo possa essere perseguito anche dalla controparte privata.
In conclusione, quello affermato dalla Corte è un principio che va rigettato per intero in quanto
porta con sé un rischio non di poco conto. Da un lato, quello di alterare la distribuzione dei ruoli e
di poteri prevista dal modello accusatorio, legittimando spinte “antisistema” (non di rado) ospitate
nelle aule giudiziarie.

Gaia Di Bonaventura

BIBLIOGRAFIA:
-BERGAMASCHI G., La parità delle parti e quel minus habens del consulente dell’imputato, in Il
penalista, via Dejure, 2020;
-CONSO G., GREVI V., BARGIS M., Compendio di procedura penale, VIII ed.;
-FILIPPI L., L’ultima eresia sui consulenti tecnici: parità in costituzione e in convenzione ma
disparità in Cassazione, in Il penalista, via Dejure, 2020;
-MARANDOLA A., Una sentenza in contrasto con i principi del “giusto processo” e la parità delle
armi, in Il penalista, via Dejure, 2020;
-KOSTORIS R. E., Una grave mistificazione inquisitoria: la pretesa fede privilegiata del resposto
del consulente tecnico dell’accusa, in Sistema penale, 2020.

                   

           DIRITTO DELLE NUOVE TECNOLOGIE

L’AVVENTO DEL GIUDICE-ROBOT: UNA RIVOLUZIONE CONTROVERSA

Se nel Regno Unito e negli USA la figura del giudice-robot si è ben insediata, ottenendo larghi consensi nel
panorama giurisdizionale, di contro, in Europa, ma ancor più precisamente in Italia, se parliamo di
giudice-robot ci approntiamo ad affrontare un tema spinoso, dai profili controversi e dibattuti, che nel
corso degli ultimi anni attanaglia il campo del diritto.
Prima di entrare nel merito delle problematiche che caratterizzano questa nuova quanto intrigante
figura, occorre definire cosa s’intende per giudice-robot e come si inserisce nel nostro sistema giuridico.
Il giudice-robot altro non è che una macchina, dunque un computer o ancor meglio un programma
installato al suo interno, che grazie a documenti ed elementi forniti a monte, è in grado di formulare
sentenze e provvedimenti mediante un algoritmo preimpostato.
Dato questo per assunto, nelle fucine del diritto si nota l’emergere di nuovi e moderni sistemi
meccanizzati quali software o banche dati elettroniche, capaci di agevolare l’operato degli stessi
tribunali, con lo scopo di rendere tutto più rapido, snello ed efficiente.
Ma la figura del giudice-robot va ben oltre: qui si parla di una vera e propria sostituzione del
giudice tradizionale che invece si ridurrebbe ad un elaboratore di dati e ad un esecutore di una
sequenza preordinata di istruzioni.
Se si consente la risoluzione di controversie ad un processo macchinico, tra gli aspetti vantaggiosi, si
annovera la progressiva riduzione del carico lavorativo di cui i tribunali sono costantemente oberati, in
aggiunta al certo e tanto desiderato accorciamento dei tempi giudiziari, ma come può una macchina
dirimere una controversia con le annesse complessità del caso?
Fino a che punto si coniuga il procedimento macchinico con i fondamenti e i principi della nostra Carta
Costituente?
Questi interrogativi attingono alla consapevolezza che il nostro ordinamento giuridico vede il giudice,
quale operatore pratico del diritto, come colui che svolge un’attività interpretativa che va ben oltre il
mero sillogismo e si rivolge al mondo dei valori etici e morali.
Ecco, l’etica potrebbe rappresentare la linea di confine ma al tempo stesso di conciliazione tra il
meccanismo scientifico che si cela dietro un algoritmo e il mondo dei fatti e delle situazioni concrete.
L’interprete non segue un procedimento automatico e standardizzato che va a sussumere il fatto nella
norma. La norma dunque vive perché c’è un evento, unico ed irripetibile, con le sue caratteristiche e
peculiarità. Non può pertanto esserci una ripetizione dei fatti e conseguentemente una ripetizione della
valutazione dell’interprete. In sostanza è impensabile che l’essere umano sia giudicato da una
macchina.
Per adeguarsi alla nuova era, che vede l’intelligenza artificiale quale protagonista indiscussa, il Consiglio
d’Europa affronta di petto la situazione nel 2018, quando la Commissione europea per l’efficienza della
giustizia adotta la Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti
connessi. Questa Carta si potrebbe definire una guida che traccia il giusto compromesso tra i diritti
inviolabili da garantire e le nuove sfide della tecnologia che avanzano pretese sempre più rivoluzionarie.
In primo luogo va sfatato il mito secondo cui l’algoritmo, che permette la risoluzione di un caso, debba
essere considerato scevro da errore e che la macchina sia per questo motivo infallibile; si è dimostrato
infatti che l’errore esiste per il fatto stesso che la macchina è un prodotto dell’uomo.
In secondo luogo il rischio che si correrebbe, adottando un metodo macchinico, è una cristallizzazione
dell’innovazione giurisprudenziale, perché si rischierebbe di perpetrare le stesse sentenze, con
l’aggravante di prefigurare un precedente o pre-iudicio, che peraltro non appartiene al nostro modello
giuridico, pertanto si deduce come l’esistenza del giudice-robot viene a sgretolarsi.
Il diritto vivente è in continuo mutamento ed è impossibile che il giudice-robot abbia la
capacità di adattarsi ai repentini sviluppi della materia oltre che alle fattezze concrete di
ciascuna vicenda giudiziaria.

A conferma della tesi contraria all’istituzionalizzazione nel nostro ordinamento di questa figura vi è
l’obbligo di rendere conoscibile l’algoritmo fin dal momento della sua progettazione e di concerto
anche il procedimento che ha condotto a quella decisione o sentenza, altrimenti sarebbe ovvio il sorgere
di una questione di costituzionalità. Il più delle volte però, per ragioni legate alla protezione dei brevetti
industriali delle aziende produttrici, i software e gli algoritmi sono segreti.
L’automazione della giurisdizione, ove non correttamente intesa e applicata, potrebbe compromettere i
diritti inviolabili costituzionalmente garantiti, tra cui il diritto dell’uomo ad essere giudicato da un
giudice naturale precostituito per legge. Non a caso i paradigmi del nostro assetto giuridico rimandano
all’esercizio di un potere trasparente, equo e imparziale del giudice.
La spersonalizzazione che deriva dall’applicare un metodo meccanizzato nelle nostre aule di
giustizia mal si concilia con quella che è la vera essenza del contradditorio, fatto di sguardi,
empatia e debolezze che solo un giudice in carne ed ossa è in grado di cogliere e che difficilmente
potrebbero essere rilevate da una macchina.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
– Costituzione della Repubblica Italiana
– Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti
connessi adottata dalla CEPEJ nel corso della sua 31 ͣRiunione plenaria (Strasburgo, 3-4 dicembre
2018)
– Rivista AIC N°: 3/2018 data di pubblicazione: 30/09/2018 “La decisione giudiziaria robotica” di
Massimo Luciani
– Rivista AIC N°: 1/2020 data di pubblicazione: 02/03/2020 “Intelligenza artificiale e giustizia” di
Filippo Donati
– Approfondimento del 28 luglio 2020 Giustizia civile.com “Norma e algoritmo: alcune considerazioni
sul nuovo ordine tecnologico” di Ettore Maria Lombardi n. 7/2020 © Copyright Giuffrè Francis
Lefebvre S.p.A. 2020
– https://www.ilfoglio.it/giustizia/2019/12/22/news/la-giustizia-dei-robot-292898/
https://www.giurcost.org/LIBERAMICORUM/morelli_scrittiCostanzo.pdf
– https://legaldesk.it/blog/giudici-robot-esistono

Patrizia Leonetti

                         DIRITTO DELLA PRIVACY 

Vite “online”: minori e problematiche di privacy

“Affermare che non si è interessati al diritto alla privacy perché non si ha nulla da nascondere è come dire che non si è
interessati alla libertà di parola perché non si ha nulla da dire.” (Snowden)
Questa frase di Edward Snowden (informatico statunitense) permette di introdurre quelle che sono le
insidie di un mondo che evidentemente non si conosce del tutto: il digitale. Le nostre vite sono ormai
scandite da una foto postata su Instagram, da note vocali su Whatsapp e video divertenti su Tik Tok, a
tal punto da aver completamente traslato i nostri rapporti sociali da reali a virtuali. Questi nuovi modi
d’interazione sociale hanno indubbiamente rivoluzionato la nostra esistenza ma ci hanno anche esposto
a notevoli rischi, spesso dovuti ad un uso scorretto e improprio di questi nuovi mezzi di
comunicazione. Purtroppo non ci si rende conto dell’enorme quantità di dati e dell’inesorabile flusso di
informazioni che vengono messe in circolo proprio dall’utilizzo, a volte incontrollato, di smartphone,
computer o tablet e delle conseguenze cui si va incontro.
Come tutelare allora la nostra privacy dal momento che la nostra vita è “online”?
Nell’occhio del mirino, infatti, ci sono proprio i minori – gli utenti più fragili- e come tali da sottoporre
a vigile e prudenziale tutela, e il rapporto che li lega a due dei più grandi colossi sul web: Whatsapp e
Tik Tok, che negli ultimi mesi, oltre ad ottenere largo seguito tra i giovanissimi, stanno suscitando
grande scalpore e preoccupazione riguardo alle problematiche di privacy e di accesso da parte di questi
ultimi.
Il minore esige di essere particolarmente protetto da un’esposizione o sovraesposizione di dati per i
possibili rischi connessi allo sviluppo della personalità, per l’esteso tracciamento della persona nel corso
dell’intera vita, per i furti di dati o d’identità, che se relativi al minore possono avere ripercussioni più
gravi.
La condivisione dei dati, anche sensibili, spesso è in grado di condizionare aspetti della personalità del
soggetto, deviare l’integrità psico-fisica, compromettere la salute e/o la reputazione del singolo a
seguito di contenuti digitali non idonei cui si viene in possesso.
Ma come regolamentare l’accesso di minori su determinate piattaforme social?
Proprio in riferimento alle condizioni applicabili al consenso dei minori in materia di trattamento dei
dati personali è d’uopo far riferimento all’art. 8 del Regolamento Generale sulla protezione dei
Dati (GDPR), operativo da Maggio 2018, nel quale esplicitamente si afferma che: “Il trattamento dei
dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni. Ove il minore abbia un’età
inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o
autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale.”
Si legge anche che è lasciata facoltà discrezionale allo Stato membro di fissare una soglia di età inferiore
purché non al di sotto dei 13 anni.
L’Italia nel 2018, con decreto, ha fissato un limite più basso rispetto a quanto enunciato nell’art. 8
GDPR, pari a 14 anni.
Ma veniamo a Whatsapp, la piattaforma di messaggistica istantanea più popolare al mondo, che nei suoi
termini di servizio enuncia quanto segue: “L’utente deve avere almeno 13 anni per utilizzare i Servizi (o
età superiore necessaria nella sua nazione affinché sia autorizzato senza il consenso dei genitori). Oltre
ad avere l’età minima richiesta in base alle leggi applicabili, ove l’utente non abbia l’età richiesta per
accettare i Termini nella sua nazione, il suo genitore o il suo tutore devono accettarli a suo nome”.
Che cosa significa? Dall’analisi di quanto precedentemente detto emerge che: in primo luogo i soggetti
di età inferiore ai 13 anni – in teoria – non possono iscriversi ad alcun social network mentre i minori tra
i 13 e i 14 anni possono farlo ma con autorizzazione dei genitori/tutori, che devono prestare il
consenso al trattamento dei dati dei minori. Nella pratica cosa accade? Quanta verità c’è in
quest’affermazione? Siamo sicuri che queste disposizioni non siano facilmente eludibili?
Quello che, a malincuore, avviene nella realtà dei fatti è una totale inosservanza della norma perché i
furbetti di turno, in fase d’iscrizione all’App inseriscono un’età maggiore – almeno quattordici anni – di
quella che realmente hanno, dichiarando il falso, motivo per cui ad esempio vediamo anche bambini di
10 anni che possiedono tranquillamente un account Whatsapp, senza il benché minimo problema
(almeno apparentemente).
Se invece il minore, in fase d’iscrizione, indicasse la sua reale età (ad es. meno di quattordici anni), allora
Whatsapp sarà tenuto a chiedere il consenso al genitore/tutore che dovrà, tramite email o messaggio
ricevuto dal fornitore del servizio, confermare o negare il trattamento dei dati personali del soggetto
minorenne.
Permane in capo al responsabile del trattamento dei dati, nel caso di specie Whatsapp, accertare la
veridicità dei dati inseriti per assicurare un’adeguata protezione di quei soggetti vulnerabili che
potrebbero diventare facili prede di chi si “diverte” dietro ad una tastiera. Anche i genitori dovrebbero,
dal canto loro, sorvegliare in modo tale che lo spazio digitale non si trasformi in un pericolo per chi vi
transita, in caso contrario potrebbero rispondere di culpa in vigilando per eventuali illeciti compiuti in
rete dai minori.
La gestione di questa situazione complessa è demandata ai responsabili del trattamento dei dati ma
anche ai titolari della responsabilità genitoriale e consiste proprio nel controllo e nella limitazione dei
contenuti della navigazione. Non è semplice adoperare questa limitazione se, nonostante si richiamino i
principi della privacy by design e by default mettendo in atto un modus operandi che preveda
minimizzazione del dato coordinata ad un’attenta gestione del rischio da parte del titolare del
trattamento, non vi sia poi nella pratica una leale collaborazione ispirata al buon senso e al
comportamento consapevole del singolo. Si potrebbe dunque affermare che l’ago della bilancia in gran
parte tenda verso il titolare e/o responsabile del trattamento dei dati personali perché su di esso
gravano i principali obblighi in merito alla raccolta dati, al dove e come vengono trasferiti e al
successivo utilizzo degli stessi, fermo restando che tutto dovrebbe essere noto agli utenti nel modo più
trasparente e chiaro possibile.
Il ragionamento, alla stregua di quello appena affrontato, è analogo a Tik Tok che nella sua informativa
sulla Privacy dispone una soglia d’età per utilizzare la piattaforma pari a 13 anni.
Tik Tok, social network cinese dove gli utenti possono creare brevi clip musicali di durata variabile, ha
anch’esso spopolato tra i giovanissimi ma ha portato con sé grosse critiche e problematiche soprattutto
alla luce di spiacevoli avvenimenti.
Il 22 gennaio 2021 il Garante per la protezione dei dati personali ha disposto il blocco degli account
degli utenti per i quali non sia stata accertata l’età anagrafica all’interno del social network. La
disposizione è stata emanata dopo la triste notizia della morte di una bambina siciliana di dieci anni,
avvenuta dopo l’esecuzione di una challenge condivisa tra gli utenti della piattaforma che prevedeva il
tentativo di strozzamento dell’utente tramite una cintura attorno al collo.
La decisione arriva anche a seguito di precedenti contestazioni da parte del Garante nei confronti di Tik
Tok quali: scarsa attenzione alla tutela dei minori; facilità con la quale è aggirabile il divieto, previsto
dalla piattaforma, di iscriversi per i minori sotto i tredici anni; poca trasparenza e chiarezza nelle
informazioni rese agli utenti e uso d’impostazioni predefinite non rispettose della privacy.
A modesto parere di chi scrive, nonostante la tecnologia avanzi e vengano tracciate linee guida per la
gestione di queste community digitali (Tik Tok le ha implementate e migliorate recentemente), è
inconcepibile che nel 2021 si debba assistere ad eventi così spiacevoli e drammatici, questo vuol dire
che la strada verso una totale e piena tutela di tutti gli utenti è ancora lunga. Questo non è l’ambiente
sicuro che ci prefiguriamo di ottenere in rete, evidentemente bisogna compiere sforzi ulteriori ma è
anche certo che ci debba essere in primo luogo un uso cosciente e consapevole degli strumenti
informatici che adoperiamo.

Patrizia Leonetti

Sitografia
– Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del consiglio relativo alla protezione delle
persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali
dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati) https://eurlex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32016R0679
– Informativa sulla privacy di Whatsapp https://www.whatsapp.com/legal/privacy-policy-eea
– Informativa sulla privacy di Tik Tok https://www.tiktok.com/legal/privacy-policy?lang=it
– Privacy e minori nell’era digitale. Il consenso al trattamento dei dati dei minori all’indomani del
Regolamento UE 2016/679, tra diritto e tecno-regolazione di Ilaria Amelia Caggiano
– https://www.cybersecurity360.it/legal/privacy-dati-personali/gdpr-e-minori-gestire-consenso-eprivacy-sui-social-che-ce-da-sapere/
– https://www.laleggepertutti.it/305459_per-usare-whatsapp-serve-autorizzazione-genitori
– https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9524224
– https://www.teamworld.it/tecnologia/whatsapp-vietato-ai-minori-di-16-anni-cosa-succederaadesso/
– https://www.patriziameo.it/privacy/2019/03/24/tik-tok-cose-e-perche-la-sanzione-dalla-ftc/

DA TIK TOK A WHATSAPP. PROBLEMATICHE IN TEMA DI PRIVACY. Il CONTROLLO SULL’ACCESSO DEI MINORI.

La libertà di comunicazione è riconosciuta e tutelata dagli artt. 15 e 21 della Costituzione Repubblicana.
Dalla lettura delle norme, l’esercizio di tale libertà assurge a diritto personale fondamentale, da cui,
sequenzialmente, si evince il principio d’inviolabilità della riservatezza e segretezza di ogni forma di
comunicazione. A livello comunitario, il diritto alla privacy è riconosciuto dal Trattato sul Funzionamento
dell’UE (art. 16) e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE (art. 8).
Il connubio delle disposizioni costituzionali ed europee evidenziate, assume, nella nostra realtà quotidiana,
connotata da un’incessante diffusione e propagazione di un numero elevatissimo di dati e informazioni,
un’importanza ancora più decisiva ed evidente. Alla base di un tale implemento, considerato fino allo
scorso decennio pura utopia, si riscontrano, in particolar modo, due fattori: il miglioramento della velocità
di circolazione dei dati e il proliferarsi di nuovi mezzi e modalità di comunicazione privati.
I cd. “social media”, a cui si sono aggiunte le numerose piattaforme di messaggistica sociale istantanea,
come Facebook e Whatsapp, sono una parte integrante delle nostre vite, soprattutto per i giovanissimi, in
quanto facilitano ed accelerano notevolmente la comunicazione, l’informazione e l’apprendimento tra
individui. Allo stesso tempo, però, essi si pongono come “mezzi necessari”, di cui è difficile, se non
impossibile, separarsi, se non si vuol essere esclusi della realtà circostante.
Il legislatore non è rimasto inerte dinanzi ad una tale verità, spingendosi ad un’analisi ed ad una
conseguente regolamentazione della gestione delle piattaforme digitali, anche tramite l’imposizione di
specifiche regole settoriali a favore delle aziende ideatrici.
Tuttavia, sia il carattere d’ indispensabilità dei social media sia il centro di ricchezza che le loro società
fondatrici rappresentano, hanno indotto il legislatore, almeno inizialmente, ad adottare un atteggiamento
timido e permissivo nei riguardi della gestione delle miriadi di “dati sensibili” in loro possesso. Solamente
negli ultimi anni, si è assistito ad un puntuale processo normativo, volto a tutelare maggiormente la privacy
e la riservatezza degli utenti-consumatori, specialmente se minorenni.
Le problematiche in tema di privacy
Nel momento in cui si iscrive ad un social media, l’utente pone a rischio la propria riservatezza: le sue
informazioni personali vengono indicizzate su motori di ricerca estranei al sistema, rendendosi esposti e
visibili a qualsiasi soggetto terzo, anche estraneo al social.
In ragione di questo, il Codice della Privacy (d.lgs. 196/2003), così modificato dal Regolamento generale
sulla protezione dei dati 2016/679 (GDPR), ha disposto una serie di principi guida in capo dal cd. “titolare
del trattamento”. L’art 12 prevede che sia fornita unilateralmente all’utente l’informativa sulla privacy,
concernente le finalità e le modalità di gestione dei dati sensibili che a questo si forniscono. La ratio di tale
obbligo è la tutela della legittimità del cd. “consenso informato”, apposto dal singolo, oltre che la liceità, la
correttezza e la trasparenza del trattamento dei dati personali forniti dall’utente.
Tuttavia, il legislatore non è sempre riuscito a procedere di pari passo con l’inarrestabile avanzata
tecnologica, ma, il più delle volte, egli è stato costretto a rincorrere. Un caso recentissimo ha riguardato
l’entrata in vigore di “nuovi termini ed informative sulla privacy”, rivolti agli utenti della famosa app di
messaggistica Whatsapp. Questa modifica, a cui l’utente è vincolato ad aderire per proseguire l’utilizzo dell’applicazione, prevede la condivisione obbligatoria di alcuni dati dei suoi utenti con l’azienda madre
Facebook, per scopi commerciali e per migliorare la loro esperienza. Tra i dati interscambiabili, rientrano i
cd. “Metadati”, termine impiegato per indicare la durata e la frequenza delle interazioni che i singoli utenti
hanno con le aziende o altri utenti, compresi i dati sulle transazioni, e tutte le informazioni sui dispositivi
usati per farlo. E’ evidente il maggior rischio a cui si espone la privacy e la riservatezza di ogni individuo.
Fortunatamente, come ha avuto premura di chiarire la stessa società, tali cambiamenti nella gestione dei
dati sono rivolti esclusivamente ai paesi fuori dall’UE, in quanto, il trattamento dei dati degli utenti europei
è tutelato dal principi del GDPR. Pertanto, occorrerebbe un accordo a livello europeo, affinché si possa
procedere ad una incisiva modifica dei termini di utilizzo.
Il controllo sull’accesso dei minori
Il numero di minori che, quotidianamente, entra nel mondo di Internet, non è da sottovalutare ed è
cresciuto esponenzialmente nell’ultimo anno, a causa della pandemia da Covid-19.
A tal proposito, Henrietta Fore, direttrice generale dell’Unicef, in occasione del Safer internet day 2021,
giornata internazionale di sensibilizzazione per i rischi della rete, istituita nel 2004 dall’Unione Europea, ha
invitato le autorità competenti a prestare una maggiore attenzione ed ad intervenire, ancora più
incisivamente, a livello normativo.
I minori, infatti, non dotati della tradizionale capacità di discernimento che si riconosce in capo ai
maggiorenni, sono maggiormente esposti ai pericoli della rete, quali lo sfruttamento sessuale on line, la
disinformazione e il cyberbullismo. L’interrealtà dei social – descritta da Giuseppe Riva- consente di far
entrare il digitale nella nostra reale dimensione, comportando la creazione di “fatti sociali”, in grado di
influenzare anche il mondo offline.
Il legislatore europeo ha riconosciuto, a favore dei minorenni, il diritto ad una partecipazione attiva e libera
alla rete, ma condizionando il suo legittimo esercizio al rispetto di determinati obblighi. In particolare, l’art.
8 comma 1 del Regolamento 2016/679 fissa a 16 anni l’età minima del cd. “consenso digitale”. Nella
circostanza in cui il minore abbia un’età inferiore ai 16 anni, il consenso è ritenuto lecito “soltanto se e nella
misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale”. Inoltre, è
riconosciuto agli Stati membri un potere di deroga con riferimento al minimo di età, nel rispetto, in ogni
caso, del minimale legale assoluto fissato al tredicesimo anno di età (in Italia tale limite è fissato a 14 anni).
Il comma 2 dell’articolo ha un’importanza centrale: si determina l’obbligo, in capo al gestore del social
media, di garantire l’autenticità e la correttezza del consenso genitoriale o di chi ne fa e veci, ponendo
come parametro oggettivo di valutazione “la massima tecnologia disponibile”. Il mancato rispetto di queste
previsioni di legge, configura una responsabilità patrimoniale nei confronti del titolare del trattamento. Al
riguardo, un caso recente ha riguardato il blocco, operato in via cautelare dal Garante Privacy, dei dati degli
utenti del social media Tik Tok per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica.
Tuttavia, la normativa esaminata è facilmente eludibile. Il minore, infatti, potrebbe accettare da se
l’informativa imposta dal titolare del trattamento, falsificando così il consenso del genitore.
Conclusioni
Per tale ragione, a parere di chi scrive, la tutela minorile non può avvenire esclusivamente per mezzo di
disposizioni di legge: è necessario che emerga l’importanza di ricevere un’educazione e una formazione
digitale, realizzata attraverso una collaborazione tra Enti ed Organismi, che operano nel settore delle
politiche giovanili, sempre più stretta, garantendo così che il minore si autoresponsabilizzi e sia realmente
consapevole dei pericoli insiti nell’utilizzo degli strumenti del Web.

Michele Dicuonzo

Bibliografia/Sitografia:

• “WhatsApp e l’avviso sulla nuova privacy: perché per noi non cambia nulla”, Biagio Simonetta, il
Sole 24ore.
• “Come cambia Whatsapp: privacy e regole, ecco cosa succede per gli utenti”, di Arturo di Corinto, La
Repubblica.
• “Legge sulla privacy: cosa prevede”, la Legge per tutti.
• “La tutela dei minorenni nel mondo della comunicazione”, Autorità Garante per l’infanzia e la
comunicazione.
• “Il Garante privacy blocca temporaneamente l’app Tik Tok”, di Pier Paolo Muia’, Diritto.it
• “Sorvegliare i Social”, intervista dell’Espresso a Luciano Floridi, filosofo della Rete dell’Università di
Oxford

Diritto della Privacy: Da Tik Tok a Whatsapp, problematiche di privacy e controllo sull’accesso di minori

Privacy e innovazione sociale: binomio vincente o estremamente pericoloso? La privacy, disciplinata nel territorio nazionale dal D.Lgs. 196/2003 e dal GDPR in ambito europeo,
allude al diritto alla riservatezza delle informazioni personali e della vita privata, cioè uno strumento
posto a salvaguardia e a tutela della sfera privata del singolo individuo.
La tecnologia digitale, in particolare internet, costituisce un’innovazione che non vive per conto
proprio in una realtà virtuale, ma incide notevolmente su quella effettiva, stimolando a cambiare i
rapporti umani ed economici e lo stesso modo di intendere il sistema ordinamentale. I suoi riferimenti
nomativi-costituzionali sono: libertà personale (art. 13 Cost.), libertà di riunione (art. 17 Cost.), libertà
di associazione (art. 18 Cost.).
La nostra, infatti, è un’epoca contrassegnata dall’esplosione delle conoscenze e dall’incessante
irruzione delle tecnologie avanzate che hanno rivoluzionato il modo di in approcciarsi alla vita
quotidiana.
Molto spesso, ci troviamo a condividere sui Social Network qualsiasi tipo di contenuto sino a quelli
più sensibili. I minori, infatti, rivestono la categoria più attiva e meritevole di tutela: è il caso del
recente episodio avvenuto sulla piattaforma TikTok. Su tale social i ragazzi, attraverso brevi video
con musica e dialoghi partecipano a “Challenge “apparentemente innocue. Purtroppo, il fine ludico
non è il solo presente: si trovano facili accessi al Dark Web collegati a chat di contenuto intimidatorio
sfocianti, nella maggior parte dei casi, in “cyber bullismo”.
L’adesione in massa di minori, è dovuta soprattutto al facile accesso alle piattaforme; difatti, non
sono necessarie alcune prescrizioni di sorta, si possono iscrivere inserendo le generalità e accettando
le “informative privacy” apposte dal social. Non sono presenti né sbarramenti, né clausole di
salvaguardia, i video immediatamente vengono immessi nel web, restando nella bacheca iniziale e
successivamente nel profilo dell’utente. In merito, la previsione del legislatore europeo prima e di
quello nazionale poi, fissa rispettivamente in 16 e 14 anni l’età in cui è possibile esprimere
autonomamente il consenso al trattamento dei propri dati personali.
Grazie agli hashtag, mediante la semplice pubblicazione, i contenuti fanno il giro del mondo e sono
automaticamente fruibili al pubblico. Gli autori dei post vengono “addescati” da altri utenti nella
maggior parte dei casi tramite messaggi privati, proponendo la possibilità di entrare a far parte di
community con hobby simili, dove però, per entrarne come membro effettivo, vi sono vere e proprie
“prove d’ingresso”.Nella pratica, non pochi sono i minori che accettano e cercano di superare con successo tali prove: è
noto il caso di una bambina italiana, di soli 10 anni, che per una sfida “Blackout Challenge”, è morta
per asfissia.
Il Garante della Privacy, Autorità competente in materia, aveva già nel dicembre 2020, richiamato
con alcune avvertenze la piattaforma TikTok, contestando una serie di violazioni, come la scarsa
attenzione alla tutela dei minori, la facilità con la quale è aggirabile il divieto previsto dalla stessa
piattaforma, di iscriversi per i minori sotto i 13 anni e la poca trasparenza e chiarezza nelle
informazioni rese agli utenti. Pertanto, il Garante con il provvedimento n. 9524224/2021 e
successivamente con provvedimento n. 9543324/2021, ha disposto un blocco immediato dell’uso
della piattaforma a tutti gli utenti per i quali non fosse immediato accertare con sicurezza l’età
anagrafica. Una volta identificato un utente al di sotto dei 13 anni, il suo account verrà rimosso. Per
identificare con ragionevole certezza gli utenti sotto i 13 anni, TikTok si è impegnata a vagliare
incrementalmente l’uso di sistemi di intelligenza artificiale.
Un contributo fondamentale è stato reso dal Componente del GPDP Guido Scorza, che ha
affermato:“Se TikTok non conosce l’età non può rispettare il GDPR e in caso di minori di 13 o 14
anni il contratto e il consenso sono nulli.”, ponendo così una sorta di monito per le future generazioni.
Non meno problematica è la questione WhatsApp, stante la sua poca chiarezza fornita agli utenti circa
l’informativa privacy per l’iniziativa “data sharing” in favore di Facebook e le sue aziende collegate.
Il Garante della privacy italiano si mostra preoccupato come anche i milioni di utenti iscritti.
In data 14 gennaio, la suddetta Autorità si è riservata di intervenire
d’urgenza portando all’attenzione del Comitato Europeo per la protezione dei dati l’aggiornamento
dell’informativa privacy di tale piattaforma e soprattutto il tempo ridotto a disposizione di ogni utente
(la data 8 febbraio 2021). La modifica unilaterale delle condizioni di utilizzo del servizio comporta
una semplice “scelta secca” da parte dell’utente: prendere o lasciare secondo il meccanismo
dell’”Opt-out”. Opposto è il meccanismo di Opt-in previsto dal GDPR e dal D.Lgs.196/2003.
Così, dopo l’apertura delle indagini, WhatsApp ha risposto con la concessione di maggiore tempo
(fino al 15 maggio) per accettare l’informativa, ribadendo che resteranno fatte salve le crittografie
end-to-end, dove i messaggi scambiati tra i familiari e conoscenti non verranno condivisi,
sottolineando nel contempo, che l’adesione all’aggiornamento acconsentirà allo scambio, facoltativo,
di messaggi con le aziende collegate a WhatsApp fornendo così una raccolta dei dati su larga scala.
In definitiva, il problema non è la tecnologia, ma l’uso che se ne fa.

Alessandra Pagani

Bibliografia e sitografia
G. CORASANITI, Diritto e tecnologie dell’informazione, Milano, 1990;
G. CASSANO (a cura di), Internet. Nuovi problemi e questioni controverse, Milano, 2001;
R. NANNUCCI (a cura di), Lineamenti di informatica giuridica, Napoli, 2002;
G. ZICCARDI (a cura di), Crittografia e diritto, Torino, 2003;
M. G. JORI, Diritto, nuove tecnologie e comunicazione digitale, Milano, 2013;
C. PERLINGIERI-L. RUGGERI (a cura di), Internet e diritto civile, Napoli, 2015.
https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9524224
https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9533424
https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9526211
https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9523881
https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/951994

                        DIRITTO DEL LAVORO 

Caso Riders: tra formalità e sostanza in Italia e all’estero

Il diritto del lavoro è un apparato normativo giovane, che nasce dalla necessità di
rispondere alle innovazioni tecnologiche che si erano presentate in occasione della
rivoluzione industriale. Nel nostro periodo storico, le innovazioni del lavoro e la tecnologia
stanno cambiando le circostanze fattuali entro cui il diritto deve muoversi, e a cui il diritto
deve adeguarsi. Per queste ragioni, il problema dei riders è solo la punta dell’iceberg delle
innumerevoli manifestazioni empiriche di questi cambiamenti.
A proposito della problematica dei riders, noti anche come lavoratori delle piattaforme
digitali, Assodelivery e UGL, in data 15 settembre 2020, hanno firmato quello che dovrebbe
avere le caratteristiche di un primo contratto nazionale di lavoro.
La problematica di fondo che emerge da questo accordo, volto a regolarizzare le condizioni
lavorative dei lavoratori impegnati nella consegna domiciliare di pasti, è che questi
continuano ad essere qualificati come lavoratori autonomi, nonostante vi siano degli
elementi di dettaglio che ben si discostano da questa qualificazione formale.
È ritenuto significativo il fatto che CGIL, CISL e UIL disconoscano questa intesa, la quale
è stata firmata soltanto da UGL. Infatti, le forme di tutela che sono state introdotte, tra cui
la previsione di un salario minimo e premi di produttività, non fanno altro che avvicinare
le caratteristiche fattuali dell’accordo ad un rapporto di lavoro subordinato.
Glovo-Foodinho, Just Eat, Uber Eats e Deliveroo sono le piattaforme di food delivery finite
al centro dell’inchiesta della Procura di Milano per le condizioni di lavoro e di sicurezza dei
riders. Nello specifico, l’Ispettorato nazionale del lavoro, dopo aver analizzato le condizioni
lavorative dei riders, si è espresso in favore della regolarizzazione di 60mila ciclo-fattorini,
prevedendo che agli stessi siano applicate tutte le garanzie previste per i lavoratori
subordinati. L’etero-organizzazione è stata desunta dal fatto che le modalità di esecuzione
della prestazione risultano impostate dall’applicazione che ciascun lavoratore deve avere
sul proprio cellulare al fine di svolgere la prestazione. Nello specifico, è emerso che il
modello organizzativo è standardizzato per tutte le società interessate, e perciò
corrispondente a quello tutelato dall’art. 2 del decreto legislativo n.81/2015.
L’art.2 del decreto legislativo n.81/2015, come modificato dal governo gialloverde, così si
esprime: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro
subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro
prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate
dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le
modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche
digitali”. Le modifiche del governo gialloverde, tra cui l’aggiunta dell’ultima proposizione,
sono state apportate con il preciso intento di allargare le tutele previste per il lavoro
subordinato anche alla platea dei riders. La discussione che si articola attorno
all’inquadramento di questi lavoratori è la stessa che si ebbe negli anni ‘80 quando si
affacciarono sul mercato del lavoro i pony express, quei lavoratori che, dotati di un mezzo
proprio, si rendevano disponibili a consegnare pacchi, posta o altro grazie a un
collegamento via radio con una struttura centrale che organizzava loro il lavoro.
Uno dei problemi che distingue la problematica relativa ai riders è che ormai non sono
soltanto i giovani ad approcciarsi a questo tipo di lavori, ma spesso sono anche lavoratori
ad alta scolarità, con un’età media piuttosto elevata e che non trovano alternative. Si è
parlato di una sorta di Medioevo del lavoro, dove l’epidemia di Covid-19 ha svolto un ruolo
preponderante perché, modificando i nostri stili di consumo, ha amplificato il ricorso del
consumatore all’e-commerce. Questo ha finito per creare una sorta di “far west” delle
condizioni di lavoro, in cui l’estrema facilità con cui il consumatore ordina ogni genere di
prodotti è inversamente proporzionale alle condizioni lavorative di chi viene impiegato per
effettuare le consegne di suddetti articoli. Prova fattuale di quanto appena detto è il fatto
che, a causa dei reati contravvenzionali sulla violazione delle condizioni di sicurezza e
salute dei riders, i quattro colossi del food delivery dovranno pagare ammende pari a 733
milioni di euro. In mancanza di tale pagamento, si procederà per vie legali.
La Corte di Cassazione con la sentenza 1663/2020 si è occupata di qualificare l’effettiva
natura della prestazione lavorativa resa dai fattorini Foodora. La Suprema Corte,
pronunciandosi per l’applicazione ai lavoratori della disciplina del lavoro subordinato, ha
confermato la sentenza della Corte d’appello di Torino, sebbene con motivazioni diverse.
Secondo la Corte d’appello, il legislatore con l’art.2 del decreto 81/2015 avrebbe voluto
emanare una “norma di fattispecie”, creando una sorta di tertium genus intermedio tra
autonomia e subordinazione. Questa affermazione è stata negata dalla Corte di
Cassazione, la quale contrariamente ha qualificato l’art.2 come una “norma rimediale” e
“di disciplina”, volta semplicemente ad estendere le tutele del lavoro subordinato a una più
ampia platea di lavoratori. Il dubbio sorge spontaneo, come potremo chiamare un rapporto
di lavoro qualificato come autonomo, ma a cui si applica integralmente una disciplina che
è prevista per un’altra fattispecie? È importante sottolineare che, nel ricorso alla Corte di
Cassazione, non sia stata nuovamente avanzata la domanda di riconoscimento di un
rapporto di subordinazione pura ex art. 2094 c.c.
Che la Suprema Corte non abbia raggiunto questo esito per mere regole processuali?
Sintomatico è che questo risultato sia stato conseguito poco dopo dal Tribunale di Palermo
che, con la sentenza n.3570/2020, subito dopo aver qualificato le piattaforme digitali come
imprese, ha sancito che i riders sono lavoratori subordinati, in quanto soggetti al potere
direttivo della piattaforma.
Nel 2018, se il Belgio ha stabilito che il rapporto intercorrente tra un fattorino e Deliveroo
non possa essere qualificato come autonomo, la Spagna ha dichiarato che la qualifica di
rider fosse volta soltanto a nascondere un rapporto di lavoro subordinato. Mentre in questi
paesi tali conquiste sono arrivate più di due anni fa, l’Italia soltanto negli ultimi tempi si è
aperta al riconoscimento di un rapporto di subordinazione pura. Tuttavia, Francia,
Australia e Regno Unito si mostrano ancora timide rispetto alla qualificazione di questi
lavoratori come subordinati. Alla luce di quanto esposto, quello a cui auspichiamo è che,
al fine di qualificare questi lavoratori, si tenga conto delle reali caratteristiche della loro
prestazione in ogni parte del mondo.
Sitografia:
-“Inchiesta sui rider, le piattaforme ricorrono contro la regolarizzazione di 60mila fattorini”
https://www.ilsole24ore.com/
-Stefano Elli “Deliveroo, Glovo-Foodinho, Just Eat, Uber eats sotto scacco dei pm milanesi:
sanzioni per 733 milioni” https://www.ilsole24ore.com/
-Avv. Francesco Meiffret “Cassazione Lav. Sent. 1663/2020 del 24 gennaio 2020”

Home

-“Tribunale di Palermo: i riders sono subordinati se la prestazione è interamente organizzata
dalla piattaforma digitale” www.lavorosi.it/homepage/
-Lidia Baratta “Gig EconomyVita da rider, l’Italia è il Paese peggiore d’Europa per fare questo
mestiere” https://www.linkiesta.it/

Rossella Marchese

DIRITTO CIVILE

Il consumatore ha sempre ragione? La Cassazione sancisce il principio di
autoresponsabilità

“Il cliente ha sempre ragione”: coniato da Harry Gordon Selfridge nel 1909, questo motto
così popolare ha dato alla Customer Satisfaction un’importanza inestimabile nel mondo
del commercio. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha sfatato questo mito con la pronuncia 8
luglio 2020, n. 14257: il consumatore, quindi, non ha sempre ragione in quanto la
disciplina posta a sua tutela deve fare i conti con il “principio di autoresponsabilità”,
principio introdotto nell’attuale panorama giuridico proprio dagli ermellini.
Il caso è quello di un viaggio che prevedeva l’ingresso in Siria dopo una permanenza di
qualche giorno in Giordania; ingresso che si era rivelato non agevole per due malcapitate
turiste, trattenute dalle autorità siriane proprio a causa del visto giordano presente sul
passaporto. Avendo dovuto sopportare in prima persona le spese necessarie per
ricongiungersi con il resto del gruppo, chiedevano il risarcimento del danno da vacanza
rovinata all’agenzia di viaggi, responsabile, a loro modo di vedere, di non aver informato
adeguatamente il turista circa le condizioni di ingresso in Siria. Per contro, l’agenzia
sosteneva di aver fornito loro un opuscolo cinque giorni prima della partenza.
In primo e in secondo grado, la domanda attorea è stata rigettata, in quanto, pur
riconoscendo l’inadempimento informativo, il giudice ha ritenuto che le attrici, avendo
ricevuto l’opuscolo prima della partenza, avrebbero potuto chiedere l’annullamento del
contratto e la restituzione della somma versata. Si giunge così in Cassazione.
In buona sostanza, la parte attrice lamentava la violazione di uno specifico obbligo di
informazione precontrattuale, di cui la stessa avrebbe dovuto essere destinataria, in
quanto acquirente di un contratto di viaggio organizzato. L’obbligo informativo del
professionista nei confronti del consumatore è ravvisabile nell’art. 87, comma 1, del d.lgs.
206/2005 (applicabile ratione temporis), secondo il quale nel corso delle trattative o,
comunque, nelle fasi antecedenti la conclusione del contratto, l’organizzatore deve fornire
agli acquirenti per iscritto, mediante un apposito opuscolo informativo, le notizie essenziali
concernenti il passaporto, il visto e gli obblighi sanitari per il soggiorno.
In un primo momento il ragionamento della Corte di Cassazione è in linea con la ratio della
disciplina consumeristica, che vede il consumatore sempre e comunque come soggetto
meritevole di protezione; il Codice di Consumo, infatti, prevedendo un obbligo informativo
precontrattuale: esonera il consumatore dal procurarsi autonomamente le informazioni
necessarie al corretto espletamento del viaggio; «impedisce le menomazioni volitive
dipendenti dall’ignoranza di fatti e di circostanze rilevanti»; consente di condividere
«notizie utili al pieno controllo dello svolgimento del rapporto, circostanze note alla
controparte, ma difficili da acquisire o acquisibili solo a titolo oneroso per il consumatore».
Tuttavia, nel prosieguo del suo discorso la Corte di Cassazione ha rilevato che la condotta
– posta in essere dall’agenzia di viaggi e lamentata dalla parte attrice – non era stata
adeguatamente denunciata e, per questo motivo, è stato impossibile verificare la
sussistenza del nesso di causalità tra l’inadempimento precontrattuale ed i danni lamentati
dalla ricorrente.
E qui arriva l’aspetto più interessante. Non riuscendo a intravedere alcun nesso tra la
condotta del professionista e il danno lamentato dalla turista, la Corte di Cassazione ha
innovato l’ordinamento italiano rompendo gli schemi, distruggendo miti e risolvendo – non
senza polemiche – la combattuta controversia; in che modo? Introducendo (sebbene in
realtà confermi semplicemente la soluzione prospettata dal giudice di secondo grado) il
nuovo “principio di autoresponsabilità” del consumatore, ossia il principio secondo il quale
la sola disponibilità dello scritto informativo, in data successiva alla stipula del contratto ed
antecedente alla partenza, la cui mancata conoscenza è imputabile esclusivamente alla

condotta negligente della ricorrente, non determina alcuna conseguenza pregiudizievole,
suscettibile di una compensazione in via risarcitoria.
Dunque, la Suprema Corte supera il c.d. “dogma consumeristico”, non assecondando la
concezione secondo la quale il consumatore si trovi sempre in una condizione di assoluta
debolezza e, quindi, meritevole di protezione. In questo modo si apre una nuova strada da
percorrere, onde evitare le storture e gli abusi che una protezione totalizzante, spesso,
comporta.
In somma, la negligenza si paga, a volte anche a caro prezzo. Tutto questo non sarebbe
accaduto se soltanto le sfortunate turiste avessero letto l’opuscolo e, eventualmente a loro
discrezione, richiesto l’annullamento del contratto. “Il tutto doveva però essere fatto prima
di chiudere le valigie”.

Fonti e Sitografia
 Corte Suprema di Cassazione, Sez. Terza Civile, Sentenza 8 luglio 2020, n. 14257
 D.Lgs. 206/2005 (Codice del Consumo)
 P. MACIOCCHI, Tour operator, l’agenzia che informa in ritardo non paga se il
viaggiatore non è autoresponsabile, Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2020
 S. PELUSO, La disciplina consumeristica tra neoformalismo comunitario e principio di
autoresponsabilità, www.rivista.camminodiritto.it

Matteo Longo